Menù di San Giuseppe (19 marzo)
Fin dall’epoca feudale, ossia quando la società era ripartita fra persone molto ricche e persone molto povere, i ricchi per farsi perdonare dal Santo (protettore dei poveri e degli avvocati delle cause impossibili), “il peccato” della ricchezza o per la “grazia ricevuta” organizzavano a casa propria pranzi luculliani per i poveri, soprattutto per i bambini, per cui la festa veniva denominata “Virgineddi“, i quali venivano vestiti di bianco ed a capotavola troneggiava, minuziosamente curato, l’altare dedicato al Santo.
Qualcuno dice che le famiglie dei poveri raffigurino “la Sacra Famiglia” ed in alcuni paesi della Sicilia veniva effettuata una vera e propria rappresentazione, con l’individuazione delle varie figure di San Giuseppe, Maria e Gesù.
Quando il numero dei benestanti cominciò a salire, come in una sorta di gara, ogni benestante organizzava un suo pranzo per le famiglie dei poveri del vicinato e la festa cambio la sua denominazione in “Vicineddi”.
Successivamente, il pranzo veniva organizzato per strada: dicono che una mia nonna organizzava la tavolata lungo la “vanella” (viuzza) sul retro della sua casa.
Ma quello che ricordo bene è il pranzo dei “Vicineddi” organizzato dalla compianta signora Tindara Fradale, mamma del mio amico Enzo Di Franco: vi partecipavo perché mia nonna era morta e l’altra mia nonna non ne organizzava e ricordo che, durante una di queste feste, Enzo mi insegnò a giocare a scacchi, vincendo le sue due prime ed ultime partite (le altre le avrei poi vinte sempre io).
Oggi, tale usanza è stata superata dal cosiddetto “bennessere” e chi ancora lo fa, tende solo a sfruttare una occasione per organizzare uno dei tanti divertimenti, a cui è ben abituato.
Il pranzo era costituito da ricotta fritta, pasta “ditale” con la ricotta o con i ceci, baccalà fritto, fritture di carciofi e cardi ed infine i “sciauni” (ravioli dolci fritti) di ricotta: il tutto era alimentato da una sorta di pagana aspettativa propiziatoria tesa ad assicurare prosperità (tipico del pasto a base di lenticchie).
Tutti sanno fare la pasta con la ricotta, ma la signora Tindara gli metteva qualcosa che la rendeva particolarmente gustosa e che mi ha svelato solo alcuni anni prima di andarsene:
Portare a bollore l’acqua salata per la pasta e versare la pasta.
Nel frattempo, sciogliere in un tegamino un po’ di sugna, aggiungervi la ricotta fresca RIGOROSAMENTE di pecora, ed amalgamare bene, aggiungendo un poco di sale ed un poco di pepe nero tritato a mulinello: tenere presente che tre cucchiai di ricotta possono condire circa 100 g di pasta.
Scolate la pasta, condirla con la ricotta sciolta e con ricotta salata e asciugata al sole grattugiata.
L’artista della pasta con i ceci (ciciri) era invece la signora Vincenza:
Mettere i ceci secchi ad ammollare in acqua già la sera prima.
L’indomani, bollire i ceci in acqua salata abbondante.
Nel frattempo, in un bel tegame di coccio, rosolare con poco olio della pancetta tagliata a dadini, con una foglia di salvia, un mazzetto di foglie di rosmarino, due cipolline fresca tritata, un peperoncino a pezzetti.
Quasi a fine cottura dei ceci, calarvi anche la pasta, i ditali possibilmente quelli grossi, e, quando la pasta è al dente, spegnere il fuoco, togliere un po’ d’acqua di cottura se dovesse risultare eccessiva e condire con io soffritto del tegame.
Alla fine potete anche aggiungere altro peperoncino se volete (una volta così mi passò una febbre alta che mi era venuta).
I carciofi ed i cardi fritti si fanno in pastella: pulire i carciofi ed i cardi, lavateli e tenerli in acqua per circa mezz’ora insieme ad alcuni limoni tagliati a metà.
Scolarli e lessarli per un’ora circa.
Sbattere un paio di uova ed aggiungere della farina, un pizzico di sale in un recipiente, aggiungendo di tanto in tanto dell’acqua fino ad ottenere una pastella non troppo densa.
Scolare i carciofi ed i cardi, tagliarli a pezzi e immergerli nella pastella, passandoli subito in padella, ma pochi per volta, con abbondante olio già caldo.
Sgocciorli su carta assorbente e servirli in un piatto di portata dopo avergli dato una spruzzatina di sale.
La ricetta delle “sciauni” è riportata nel Menù greco.
Mentre la signora Tindara e le sue amiche cucinavano e preparavano la tavolata, noi bambini giocavamo nella “vanedda” (Via Cesare Battisti a Francavilla di Sicilia) al “paroggio” (trottola di legno), ai “piriddi” (lancio del legno battuto), a “mmucciatedda” (nascondino), alla corsa dei sacchi.
Forse è un mondo ed a uno stile di vita che non esiste più e che invece mi appartiene intimamente e fortemente.
Spero che i miei figli, nati e cresciuti in un mondo completamente diverso, un giorno possano capire valori, che in questa società, che dà sempre più importanza alla ricchezza e al successo, sembrano fuori moda.
Un saluto da Enzo Raneri