Mongiuffi Melia sorge a 420 metri s.l.m. ed e’ il decimo comune, come altitudine, del comprensorio dei monti Peloritani.
Immerso in una valle ricca di platani, vigneti ed uliveti secolari, fin dal periodo Romano costituiva uno dei più importanti serbatoi per l’approvvigionamento della città di Taormina, ve n’e’ difatti traccia in un antico acquedotto di origine greco-romana situato nella vallata.
Fino agli anni ‘50 fu sede di un industria di allevamento di filugelli che costituiva la principale fonte di reddito del paese poi scomparsa con l’avvento della seta sintetica. Divenne Marchesato nel 1639, quando Giuseppe Barrile, Senatore della città di Messina, comprò il titolo di Marchese di Mongiuffi e Barone di Melia da Filippo IV (1605-1665). Da allora e fino al 1903 si sono succeduti 14 Marchesi. La sede del Marchesato era a Melia, nome che derivava dal culto che i Greci avevano per l’ Oceanina Melia, sposa d’Inaco, figlia di Oceano e Tetide venerata nella Beozia, antica regione della Grecia, come ninfa delle acque (infatti la leggenda narra che Cronos, per punire il padre Urano, gli tagliò i genitali, dai quali, scagliati nel mare nacque Afrodite e che dal sangue che uscì dalla ferita nacquero le Furie, i Giganti e le ninfe Meliadi, ninfe dei frassini,che proteggevano i bambini appena nati che venivano abbandonati sotto gli alberi).
Da una ricerca storica di Giovanni Curcuruto sappiamo che nel 1535 Carlo V, dopo aver sconfitto gli Arabi a Tunisi, si recò in visita a Taormina dove vendette per 80.000 fiorini tutti i possedimenti del territorio ad Antonio Balsamo. In seguito, Taormina riscattò la propria vendita, mentre nei territori di Letojanni, Gallodoro, Gaggi, Graniti e Mongiuffi Melia furono creati dei Marchesati e delle Baronie. Nel 1639 il Marchesato di Mongiuffi e la Baronia di Melia furono venduti al Senatore Messinese Giuseppe Barrile per 4.800 once pari a 35 Euro attuali, ed il 4 Febbraio del 1643 s’investì del titolo di Marchese di Mongiuffi e Barone di Melia occupando il 33 posto nel Parlamento Siciliano. Nei primi anni la sede del Marchesato fu a Mongiuffi, in un’abitazione ancora esistente, nei pressi della vecchia Chiesa di San Leonardo.
In seguito, il Marchese Barrile decise di costruire un palazzo più grande dove abitare con tutta la famiglia nel periodo della caccia. La scelta del luogo dove costruire il Palazzo cadde su un giardino fuori dal centro abitato dove sorgeva una piccola casa di contadini nel Borgo di Melia. I lavori, per la costruzione del Palazzo o Castello come lo chiamava il Barrile iniziarono nel 1640 furono affidati al capo mastro Lo Turco Sebastiano e vi presero parte tutti i contadini del luogo mentre le Maestranze giunsero dalla vicina Taormina. La prima parte del Palazzo, fu completata nel 1644 e l’entrata era dalla Via Grande, la strada principale del Borgo. Davanti vi erano una piazza con una sorgiva d’acqua chiamata “Fontana Rizza” e un cancello di ferro lavorato sorretto da due colonne. Si salivano degli scalini in pietra alla sommità dei quali vi era un pianerottolo con un sedile in pietra dove i marchesi, durante la calura estiva, riposavano all’ombra di un gran pergolato che copriva anche l’adiacente terrazzino “Astrico”, molto in uso nelle case dei nobili della Sicilia del ‘600. Al primo piano vi erano sei balconi, tre in pietra locale sorretti da capitelli che davano sulla Piazza San Sebastiano, gli altri tre, dopo i restauri, apportati dall’ultimo proprietario, furono trasformati due in balconi a muro, il terzo, quello della camera da letto, fu chiuso definitivamente. Abitato dai 14 Marchesi e dalla famiglia Cuzari fino al 1973, dopo la morte dell’ultimo erede fu acquistato dal Comune e dopo un periodo d’abbandono nel 2005 – 2006 i lavori di restauro lo hanno riportato agli antichi splendori: ristrutturato dalle Belle Arti; è destinato ad ospitare mostre ed eventi culturali.
Nell’adiacente Piazza di San Sebastiano si trovava la cappella privata dei Marchesi, con sopra il portale una nicchia con la statua di San Sebastiano del XVII sec. Ultimo proprietario del palazzo fu Leonardo Cuzari fu Francesco, Podestà di Mongiuffi Melia negli anni cinquanta Ma la storia di Mongiuffi Melia è certamente più antica e ancor oggi i resti di un acquedotto greco romano testimoniano un passato fulgido. Volgendo lo sguardo da Letojanni verso i monti, il visitatore scoprirà la valle del Chiodaro, partendo da contrada “Uttara” sulla sponda del fiume Ghiodaro nei pressi di un vecchio mulino ad acqua si inerpica una scalinata si dice costruita dai saraceni per arrivare in contrada Rocche ove fanno mostra insediamenti contadini ; più avanti superando siepi di bosco si giunge in contrada Polizzana dove si possono trovare i resti dell’acquedotto Greco-Romano, detto del diavolo lungo circa 25 km, il cui scopo era quello di portare l’acqua a Taormina, fu costruito verso l’anno 200 a.C. dai Greci con calce preparata sul posto, difatti nelle campagne circostanti al comune risiedono tutt’ora resti di piccole fornaci. L’impasto era in pietra macinata mista a sabbia, la condotta misurava cm 100 x 50.
In seguito i Romani ampliarono l’acquedotto costruendone uno più basso di cm 50 x 50 con impasto di calce e mattoni in terracotta e collegarono le sorgive del Ghiodaro. Le acque vennero convogliate in un’unica vasca dalla quale due condotte portavano l’acqua in una grande vasca in contrada KARDA’. Da qui partiva una sola condotta che arrivava a Taormina in contrada Ciafari, dove vi erano due grandi vasche di smistamento.
Nel VIII secolo gli Arabi assediarono Taormina e scoperta l’esistenza dell’acquedotto greco-romano, tagliarono le condotte in diversi punti per costringere la città alla resa. Nella stessa contrada Uttara dove si trovano due grotte e un incavo molto grande nella pietra sagomato dal perenne scorrere dell’acqua dove le pareti rocciose si alternano a boschi rigogliosi e l’acqua e le rocce formano piccole e limpide piscine naturali. Viene denominata a Quattara U’ Drau, poiché secondo un antica leggenda in questo luogo viveva un enorme drago che incuteva timore alla popolazione. La particolarità di questo luogo sta nella colorazione delle rocce circostanti che a causa dei detriti trasportati dal corso dell’acqua assumono una tonalità rossastra. La gente associava questa singolarità al sangue di una belva enorme ossia un drago che viveva in questa vallata. Proseguendo verso Mongiuffi si arriva “All’Acqua frisca” sorgiva d’acqua naturale costruita dal Marchese Pancrazio Corvaja. Ed è proprio su questa valle che si affacciano i due paesetti di Mongiuffi e diMelia, protetti alle spalle dalla grande sagoma del monte Kalfa.
Nella valle del Chiodaro scorre il fiume Letojanni, il quale, nella sua parte nord, assume il nome d Mongi da cui l’origine della denominazione di Mongiuffi. Più certa l’etimologia di Melia tratta dal greco “melos” cioè frassino, un tempo infatti, la vallata era ricoperta di boschi di frassino. Per arrivare da Letojanni ai due paesi si deve attraversare la galleria di Postoleone che si trova al Km 4 sulla Sp11 Letojanni-Mongiuffi Melia dove durante il periodo della guerra del 1915-18 e stata scavata nella viva roccia calcarea una galleria ad opera dei prigionieri austriaci e che a tutt’oggi fa da scenario in numerosi films e pubblicità per la propria bellezza naturalistica. Partendo da Mongiuffi, bivio Roccafiorita -Madonna della Catena e dopo una manciata di chilometri ecco la pianura di Margi, al confine tra il territorio di Mongiuffi Melia, Gallodoro e Forza D’Agro’, una strada lastricata da pietre conduce su un costone nascosto tra gli alberi sulle cui sommità vi sono i ruderi di un accampamento Romano immerso nel verde. In quel luogo nel 36 a.C. si accamparono le truppe romane di Sesto Pompeo dirette a Siracusa durante la guerra civile contro Ottaviano.
Altre testimonianze furono costruite probabilmente durante una dominazione Araba che dopo aver conquistato Taormina si sposto’ nel territorio lasciando i segni della propria permanenza. A Mongiuffi Melia sono rimaste due testimonianze: le famose Arcofie o Contrabbone, consistentiin gallerie per il passaggio da un’abitazione all’altra; una di esse è visibile e in buone condizioni in Piazza San Sebastiano, l’altra forse di costruzione più recente rispetto alla prima denominata Contrabbona dei Carbonari a causa delle riunioni che quest’ultimi effettuavano nelle vicinanze nei primi dell’ 800,è nel Piano degli Angeli.
Particolare devozione è data a Santa Maria del Monte Carmelo venerata nella Chiesa a lei intitolata al centro di Mongiuffi nel cui interno oltre alla miracolosa statua della Madonna della Catena, è custodita la maestosa statua in marmo della Madonna della Vena, opera della scuola del Gagini, collocata sull’altare maggiore della chiesa. Originariamente il mantello della statua era azzurro e con bordi dorati,col passare degli anni la mano dell’uomo ha cancellato il colore originale del manto,facendolo apparire tutto bianco.
Una leggenda vuole che la statua trasportata da una nave mercantile che andò alla deriva nei pressi di Letojanni, fosse stata raccolta da alcuni contadini di Mongiuffi , che provarono a trasportarla attraverso il fiume Ghiodaro nel paese di Mongiuffi. A causa del peso la statua fu deposta momentaneamente su di una roccia in contrada Virviri. Il popolo di Mongiuffi dopo inutili tentativi di trasportare la statua della Vergine, decise di pregare promettendole di dedicarle ogni Sabato di Quaresima se fosse riuscito a trasportarla fino in paese. Così volle che la statua si fece leggera e dalla pietra su cui era posta nell’atto di alzare la statua sgorgo una sorgiva che prese poi il nome di Fontana della Vergine delle Grazie “ARAZIA” in contrada Virviri.
Ancora oggi è possibile visitare questa sorgiva ove si possono notare sulla pietra alle spalle della fontana, una scritta scolpita “1717 M.W.”. In Contrada Fanaca sorge il Santuario della Madonna della Catena, ogni anno numerosi fedeli partecipano alla solenne processione che dalla Parrocchia di Santa Maria del Monte Carmelo a Mongiuffi, porta la statua della Madonna della Catena al santuario di Contrada Fanaca. La partenza è preceduta da una processione detta del “saluto”, che si tiene per le vie di Mongiuffi.
Nell’anno 1397, al tempo del regno di Martino I in Sicilia tre giovani innocenti furono condannati alla forca in Palermo. Nel giorno dell’esecuzione i condannati furono condotti a Piazza Marina, dove erano alzate le forche. ma poco prima di salire sul palco si scatenò un tremendo uragano che costrinse i gendarmi con i condannati a rifugiarsi nella chiesetta di Santa Maria del Porto, presso il mare,in attesa della fine del temporale. Durante la notte mentre le guardie dormivano i condannati pregavano la Vergine Santa perche facesse conoscere la loro innocenza. Ad un tratto sentirono spezzarsi le catene e avviandosi presso l’uscita videro la porta spalancata. Già sorgeva il giorno. Furono però raggiunti dalle guardie che li avrebbero incatenati di nuovo se non fosse intervenuto il popolo che ,di fronte allo straordinario prodigio, si appellò alla clemenza del Re. Quest’ultimo fu il primo a portarsi alla chiesetta del prodigio per vedere le catene spezzate rendendo cosi liberi i tre condannati e rendendo omaggio a Maria.
La chiesetta divenne santuario e fu meta di continuo pellegrinaggio, la devozione verso Maria sotto il nuovo titolo si diffuse per tutta la Sicilia e non solo. Furono anche eretti altri santuari ove tuttora viene venerata.
L’ultima volta che sono stato a Mongiuffi Melia, qualche mese fa, ho avuto modo di raccogliere notizie su ciò che viene preparato di tipico ed ho avuto la possibilità di elaborare l seguente menù, che certamente si può degustare nella settimana precedente il primo sabato del mese di settembre e prevede:
• Arancini di riso al finocchietto selvatico e salsiccia
• Capra bollita
• Cassatella di ricotta
Ed ecco le ricette:
Preparate un risotto semplice, tostando il riso con un trito di cipolla e carota, e portando a cottura gradualmente con il brodo di carne.
A parte preparate la salsiccia, rosolando in padella con olio e cipolla, e cuocete a fuoco medio con un pò di sale. A fine cottura aggiungete un mazzetto di finocchietto selvatico già lessato e sminuzzato.
Lasciate riposare entrambe le preparazioni in frigo per qualche ora, o per una notte intera.
Assemblate le arancine:
fate delle piccole palle tra le mani umide, formando un incavo nel mezzo, in cui va messo un cucchiaio di salsa di finocchietto, un pezzo di salsiccia rosolata e un dadino di caciocavallo;
quindi chiudere il tutto e formate una palla che faretee rotolare ogni pallina all’interno di ogni contenitore ruotandolo in senso orario. Prima nella farina, poi nell’uovo leggermente sbattuto, poi nel pangrattato.
Dovete fare ruotare ogni pallina per un bel pò, di modo che assorba bene la farina, ed anche il pangrattato. Più velocemente, invece, nell’uovo sbattuto.
Friggete, o cuocete in forno, dopo aver adagiato le arancine in teglia unta e irrorato con un filo d’olio (temperatura alta per pochi minuti).
Servire tiepide.
E’ una specialità di origine bizantina, a tutt’oggi utilizzata nel vicino oriente proprio durante le feste religiose.
In una casseruola capiente mettere i pezzi di capra già lavati e copriteli di acqua; portate ad ebollizione e fare cuocere a fuoco bassissimo.
Nel frattempo, in una casseruola a parte, mettete dell’olio extravergine di oliva, delle cipolle tagliate a fette, in quantità pari in peso alla metà del peso della carne, nonché alcuni pezzi di aglio secondo il proprio gusto, condite con origano, salate e pepate.
Fate prendere bollore, quindi aggiungete del vino bianco ed aggiustate di sale e pepe.
Abbassando la fiamma, aggiungete a questa preparazione la carne un po’ per volta e cuocere a fuoco bassissimo per molte ore.
Mischiate 500 gr. di farina di semola, 150 gr. di strutto, 30 gr. di vino bianco, 2 uova, 3 cucchiai di zucchero, ½ bustina di lievito per dolci, sale q.b.
Lavorate la pasta fino ad ottenere un impasto morbido ed elastico, lasciate riposare il panetto avvolto in un canovaccio di cotone.
Stirate la pasta formando dei cerchi di 15 cm. e ritagliate dalla pasta delle strisce sottili formando un cordoncino, che servirà a dare sostegno al cestino,man mano viene chiuso, pizzicando la pasta a intervalli, formando i canestrini, punzecchiate la pasta alla base e riempite il canestrino con 700 gr. di ricotta lavorata con 200 gr di zucchero, mettete in forno a 180° fino a doratura.
Sfornate e spolverare di cannella.
La leggenda narra di una vecchietta che si rifiutò di aggregarsi ai re Magi nel viaggio a Betlemme e poi
Menù di Sant’Antonio (17 gennaio) Normalmente è questo il giorno in cui si uccide il maiale. Infatti, dopo averlo acquistato
Il Carnevale si conclude il giorno precedente al mercoledì delle ceneri, che segna l’inizio della quaresima. Non esistono moltissimi studi