Menù di San Cremete (6 agosto)

Menù di San Cremete

(per i loro contributi si ringraziano Mario RE e Giuseppe TROPEA)

Sembra che il monachesimo cristiano sia nato in Egitto con l’anacoreta Antonio (morto nel ‘356) e con il cenobita Pacomio (morto nel ‘346): da lì si sarebbe diffuso con rapidità verso la Palestina, la Siria, la Cappadocia, Roma, la Gallia.

In effetti, probabilmente sia Antonio che Pacomio fondarono le proprie esperienze su precedenti manifestazioni di monachesimo, e solo la loro autorità e il loro prestigio determinarono poi l’estensione del fenomeno.

Sotto la pressione dei turchi, verso la fine dell’anno mille si intensificò un esodo di monaci dalla Grecia verso l’Italia meridionale.

Ruderi del monastero di San Salvatore, ormai comunemente chiamato ''Badiazza'' --- foto: Fabrizio Raneri

Quando, nei primi decenni del sec. XI, la Sicilia musulmana era sconvolta da una grave crisi, il governo dell’isola si incentrava su tre emirati praticamente indipendenti: uno orientale, nella zona Catania-Noto-Siracusa; uno nella zona del nord ovest (Trapani e Mazara); uno nella parte meridionale dell’isola (Agrigento e Castrogiovanni).
Messo alle corde già dalla spedizione bizantina di Maniace, e dagli attacchi dell’emiro di Agrigento, l’emiro di Catania Ibn Thumnah chiamò in aiuto i Normanni di Roberto d’Altavilla detto il Guiscardo, che aveva da poco completato la conquista della Calabria bizantina (circa 1060).
Il Guiscardo delegò il fratello Ruggero I° d’Altavilla.
Questi occupò la parte nordorientale dell’isola nel 1061, riuscendo però ad entrare in Palermo solo nel 1072, proclamandosi conte di Sicilia e conquistando completamente l’isola solo nel 1091 con la conquista di Noto.

Sotto la lontana dipendenza (teorica) del duca di Puglia, il Gran Conte Ruggero I° d’Altavilla si dedicò alla “rilatinizzazione” della Sicilia sociale e religiosa ed al ripristino (e alla creazione ex novo) degli arcivescovati latini, cosa che gli valse nel 1098, da parte di papa Urbano II, la cosiddetta Legazia Apostolica, grazie alla quale egli divenne praticamente il capo del clero della Calabria e della Sicilia.

Ruderi del monastero di San Salvatore della Placa, ormai comunemente chiamato ''Badiazza'' --- foto: Vincenzo Raneri In questo quadro storico si inserisce la storia di Cremete (Chremes, nato sotto dominazione musulmana), il quale viveva in un eremo, fra le rovine di un antico cenobio, nei pressi dell’attuale Francavilla di Sicilia (all’epoca ancora inesistente), su una rupe a 510 s.l.m. considerata all’epoca luogo sacro e posta ai margini della foresta di Placa.

Quando il Gran Conte Ruggero d’Altavilla riuscì a liberare tutta la Sicilia dai Musulmani, il frate anacoreta Cremete, venuto a conoscenza che il Gran Conte si trovava in zona, gli si presentò per chiedergli aiuto nella ricostruzione del diroccato cenobio in cui viveva, portandogli in dono animali selvatici vivi stranamente obbedienti ai suoi ordini, ed il Gran Conte, colpito dalle capacità del monaco, gli concesse quanto chiedeva; il diploma di fondazione del monastero, porta la data del dicembre 1092 ; esso fu dedicato a S. Salvatore e Cremete ne divenne l’abate.

Esiste anche una storia non dimostrata (praticamente una leggenda) che racconta che i discepoli di Cremete, stanchi della sua severità di costumi, lo gettarono giù dalla rupe, senza però riuscire ad ammazzarlo (e questo sarebbe il miracolo), Cremete li perdonò.
Cremete morì poi intorno al 1099 e rimanendo sepolto proprio nel suo nido d’aquila, profanato purtroppo presumibilmente nella seconda metà del 1700.

Ruderi del monastero di San Salvatore della Placa, ormai comunemente chiamato ''Badiazza'' --- foto: Vincenzo Raneri Il monastero nel 1131 venne posto sotto l’Archimandritato del Santissimo Salvatore di Messina, nel 1133 dipendeva ancora dall’Archimandritato pur rimanendo autodespota; nel 1328 il monastero ospitava sei monaci, nel 1336 sette, e nel 1448-49 il feudo di San Paolo appartenente al monastero, forse sotto la pressione dei Ruffo signori di Francavilla, venne interamente venduto.

Nel 1457 circa, il territorio della Placa, monastero compreso, venne annesso come proprietà dai Francavillesi.
Il monastero, per la sua posizione, nella quale sorge uno sperone di roccia naturalmente inaccessibile, venne utilizzato come fortilizio: la cronaca di Nicolò Speciale narra dell’arx placarum, durante il 1299, presso Francavilla di Sicilia; l’utilizzazione come fortezza è documentata fino al 1356, periodo in cui è addirittura menzionata come “mocta placarum”.

Sul finire del XVII secolo, i monaci, a causa del terribile terremoto del 1693 che causò la rovina del monastero, si trasferirono nella vicina città di Francavilla, altri nella città di Castiglione, ospiti inizialmente in un’ala del castello.
Nel 1770 i monaci, su consiglio delle monache Benedettine di Randazzo, di cui era confessore straordinario l’allora Abate Padre Gregorio Sanfilippo, si trasferirono definitivamente, a Randazzo, dove, acquistato il terreno in località ” Rocca ” su una collina a mezzogiorno dell’abitato entro le mura di cinta, iniziò la costruzione del Monastero e della relativa Chiesa (dal 1865 Collegio salesiano di San Basilio), presso il quale ancora oggi è custodita la reliquia del santo.

Altre notizie storiche non ci sono, la festa liturgica di san Cremete ricorre insieme a quella del san Salvatore, a cui era dedicato il monastero, il 6 agosto; in questo giorno si espone il la sua reliquiario con iscrizione in latino del 1656 “caput Sancti Cremetis abbatis confessoris”.

Ruderi del monastero di San Salvatore della Placa, ormai comunemente chiamato ''Badiazza'' --- foto: Vincenzo Raneri Attualmente i ruderi del monastero sorgono su di un dado marnoso, accessibile solo ed esclusivamente da occidente.
Per tre lati le pareti sono a strapiombo e danno su di un dirupo profondo centinaia di metri: qualsiasi scalata è impresa di temerari.
I resti del complesso edilizio si riducono a poche macerie pericolanti.
Gli ambienti principali sporgono verso oriente, lungo un asse nord-sud, in contatto visivo con il castello di Francavilla.

Ivi si distinguono un deambulatorio comune e alcuni vani di piccole dimensioni, probabilmente le celle dei monaci.
Appresso dovrebbe trovarsi l’ingresso principale del monastero e subito dopo tre vani a pianta quadrata.
Di seguito è possibile riconoscere la pianta rettangolare di una piccola chiesa con nartece quadrangolare ed abside poligonale, ricavato nella muratura della parete orientale. In questo luogo si riconoscono due sepolture: la prima, in muratura, è addossata alla parete meridionale della chiesa, prossima ad un piccolo ingresso secondario; la seconda, accostata alla parete meridionale del nartece, è scavata nella roccia calcarea ed è coperta da una volta a botte.
La chiesa non presenta un impianto unitario ed è possibile osservare, infatti, due tipologie di muratura: in basso risaltano grossi conci di pietra squadrati, più in alto il pietrame diventa minuto, non sbozzato e legato insieme da malta e cocci spezzati.

Ruderi del monastero di San Salvatore della Placa, ormai comunemente chiamato ''Badiazza'' --- foto: Vincenzo Raneri È ipotesi probabile che la chiesa sia stata ricostruita, con tecniche diverse, da un impianto originario di possibile origine bizantina. Inoltre, in prossimità del complesso principale si possono osservare due piccoli vani rettangolari, forse adibiti a palmento del monastero.

A meridione si osserva un vano a pianta quadrangolare colmo di macerie per tre quarti della profondità.
Per quello che affiora parrebbe una cisterna a volta ricoperta da malta idraulica, impermeabile ed adatta a contenere liquidi.
Dall’esame del complesso monastico si può ipotizzare un impianto non unitario, ma sviluppatosi per aggregazione successiva di vani, secondo le necessità del momento. Le due tipologie edilizie, che contraddistinguono il corpo di fabbrica della chiesa, farebbero ritenere che proprio in questo luogo sorgesse in origine l’edificio bizantino preesistente al monastero.

Fino alla metà del 1800 a Francavilla di Sicilia (ME) veniva festeggiata la festa di san Cremete, oggi non più e la maggior parte dei locali nemmeno sanno che si tratta (con tutte le riserve storiche del caso) ufficialmente di un santo, anziché di un semplice frate: un paio di decenni fa una via pubblica di Francavilla di Sicilia, che dal paese porta nella direzione della Batiazza, è stata intitolata a “Fra Cremete”.

Un saluto da Enzo Raneri


Un tipico menù dei frati anacoreti potrebbe essere così costituito:

• Frittelle di finocchietto selvatico
• Zuppa di ortiche
• Tortino di patate e tarassaco
• Caffè di radici di tarassaco

Vediamone le ricette.


Frittelle di finocchietto selvatico

Frittelle di finocchietto selvatico foto: Vincenzo Raneri Lavate e pulite un mazzo di finocchietto selvatico (attenzione a raccoglierlo sempre lontano da zone trafficate o variamente inquinate), scegliete i gambi più teneri e tagliateli di 2 cm di lunghezza, scottateli in acqua salata, scolateli e teneteli da parte.

Preparate una pastella densa con un uovo, 50 grammi di farina, 30 ml di acqua molto fredda, la punta di un cucchiaino di lievito e un pizzico di sale, e lasciate riposare per dieci minuti.

Aggiungete i finocchietti alla pastella, prendere una cucchiaiata di impasto per volta e friggetela in olio ben caldo.
Scolate le frittelle quando saranno dorate da ambo i lati, salate e servite calde, magari cosparse di un trito finissimo di foglie di salvia e cacio.


Zuppa di ortiche selvatiche

Zuppa di ortiche selvatiche foto: Vincenzo Raneri Raccogliete 800 grammi di germogli di ortica (utilizzate solo posti lontani da traffico, inquinamento, discariche, acque stagnanti, ecc.), lavateli bene sotto l’acqua corrente, sgocciolateli e tritateli con la mezza luna.

La stagione migliore per raccogliere le ortiche sarebbe in maggio.
Sbucciate una cipolla, affettatela e tritatela, fatela soffriggere in una pentola con 25 grammi di burro; quando sarà ben imbiondita unite l’ortica e lasciatela insaporire per almeno 5 minuti.
Salate leggermente, versate un mestolo di brodo vegetale caldo e fate cuocere per una ventina di minuti a fuoco basso e recipiente scoperto, mescolando e aggiungendo poco alla volta altro brodo vegetale.

Assaggiate se va bene di sale, condite con un filo di olio e servitela calda con formaggio duro grattugiato e crostini rosolati nel burro.


Tortino di patate e tarassaco

Tortino di patate e tarassaco foto: Vincenzo Raneri Spuntate i gambi di 200 grammi di tarassaco e sciacquatelo bene per eliminare la terra.
Sbucciate 4 patate rosse, lavatele e tagliatele a pezzetti.
Cuocete le verdure a vapore per 15 minuti e poi tritatele.
Rompete quattro uova e salatele.
Aggiungete quattro cucchiai di parmigiano e una tazzina da caffè d’acqua.
Miscelate per bene.
Sciacquate gli aghi di un rametto di rosmarino e otto foglie di salvia, asciugateli bene e tritateli insieme ad uno spicchio di aglio.

Mettete il trito in una padella antiaderente, aggiungete l’olio, e fate soffriggere rapidamente su fuoco basso.
Togliete la padella dal fuoco, versate l’impasto già preparato, livellandolo con un cucchiaio bagnato in acqua e fate rassodare per circa 10 minuti a fuoco basso.
Girate il tortino dall’altro lato (aiutatevi con un piatto) e fatelo cuocere per altri 5 minuti a fuoco basso.

Servite subito caldo.


Caffè di radici di Tarassaco

Caffè di radici di Tarassaco foto: Vincenzo Raneri Raccogliete le piante in un posto lontano dall’inquinamento delle strade (e anche lontano da discariche!) eliminate le foglie e lavate molto bene e più volte le radici immergendole in un catino pieno d’acqua e strofinandole con le mani, cambiando molte volte l’acqua finché risulterà limpida.
Non vi preoccupate se rimangono ancora un po’ sporche: le laverete ancora dopo.

A questo punto con un grosso coltello tagliate le radici a rondelle e lavatele ancora una volta.
Lasciate asciugare e poi mettete le radici in un robot da cucina, azionatelo in modo da ottenere tanti piccoli pezzettini (non fatene una farina però!).

Ponete sulla teglia del forno un solo strato le radici tritate.
Scaldate il forno a 250 °C lasciando lo sportello un pò aperto in modo da permettere all’umidità di uscire.
In questo passaggio, che deve durare circa 2 ore, le radici diminuiranno visibilmente di volume, asciugandosi, e prenderanno una colorazione scura tostandosi.
State attenti comunque a non bruciarle!

Una volta tostate potete spegnere il forno e passare le radici in un tritattutto (o macinacaffè).
Conservate il caffè così ottenuto in un vasetto a chiusura ermetica.
Per gustarvi il frutto del vostro duro lavoro usatelo come fosse caffè normale utilizzando una moka classica invece di miscelarlo con acqua calda alla maniera orientale.