Esistono quattro ipotesi circa l’origine dei Siculi:
1°) Origini Centro Italiche
2°) Origini Liguri
3°) Origini Liguri-Siculi di Siculo ad Alba Longa
4°) Origini mediorientali
La prima ipotesi è dovuta sostanzialmente al seguente frasi di Antioco Senofaneo «La regione, che ora chiamasi Italia, anticamente tennero gli Enotri un certo tempo il loro re era Italo, e allora mutarono il loro nome in Itali; succedendo ad Italo Morgete, furono detti Morgeti; dopo venne un Siculo, che divise le genti, che furono quindi Siculi e Morgeti; e Itali furono quelli che erano Enotri»
Località come Antemnae(oggi inesistente), Fescennium (oggi inesistente), Falerii (oggi Civita Castellana), Pisa, Saturnia, ecc. sarebbero state in origine occupate dai Siculi, mentre un quartiere di Tivoli, che ancor oggi conserva il nome di Siciliano, avrebbe avuto al tempo di Dionigi ancora dei Siculi.
La seconda ipotesi è fondata su scritti di Tucidide e Dionigi di Alicarnasso, nonché di Stefano di Bisanzio, secondo cui i Siculi sono considerati Liguri, e sarebbe confermata dagli storici moderni che hanno rilevato la presenza di nomi di città come Erice, Segesta ed Entella in Liguria.
La terza ipotesi si basa su uno scritto di Dionigi di Alicarnasso«La città che dominò in terra e per tutto il mare, e che ora abitano i Romani, secondo quanto viene ricordato, dicesi tenessero gli antichissimi barbari Siculi, stirpe indigena; questi occuparono molte altre regioni d’Italia, e lasciarono sino ai nostri giorni documenti non pochi nè oscuri, e fra questi alcuni nomi detti Siculi, indicanti le loro antiche abitazioni»
Ed esaminando i caratteri fisici dei Liguri e dei Siculi, Sergi avrebbe stabilito la loro identità: anche da ricordi archeologici risulta esservi stato un simile comune costume funerario; e lo scheletro neolitico di Sgurgola presso Anagni era colorato in rosso come gli scheletri neolitici delle Arene Candide, grotte liguri. Liguri e Siculi sarebbero stati quindi due rami dello stesso ceppo umano, solo che, avendo differenti abitati, sarebbero stati erroneamente considerati come due razze diverse. La teoria è quindi che quando si parla di questi antichissimi barbari Siculi, primi abitatori della città che poi fu Roma, si tratti di una popolazione ligure-sicula condotta da Siculo.
Troviamo effettivamente riscontro in Filisto di Siracusa che, riportato da Dionigi di Alicarnasso, sostiene che la gente, la quale passò dall’Italia in Sicilia, non era di Siculi, ma di Liguri condotti da Siculo. Servio scrive che la città da lui denominata “Laurolavinia”, composizione delle due, Laurentum e Lavinium, che si fusero, sorse dove già abitasse Siculos.
Le teorie sulle origini centro italiche prima, e liguri poi, si incontrano e si sposano perfettamente in questa terza teoria: Dionigi che aveva scritto che i Siculi fossero i più antichi abitatori della città che fu Roma, e del territorio latino, narra che i primi aggressori per occupare il loro abitato con lunga guerra furono i così detti Aborigini che avevano chiamato in loro aiuto i Pelasgi. Questi non riuscirono a sconfiggere totalmente i Liguri-Siculi, i quali però, secondo quanto ci riferisce Ellanico Lebio in Dionigi, infine, stanchi delle aggressioni o non potendo resistere ad esse, avrebbero lasciato il territorio e sarebbero migrati, passando per l’Italia Meridionale, in Sicilia, che da loro avrebbe preso il nome. Non tutti i Liguri-Siculi avrebbero seguito Siculo in Sicilia e sarebbe per questo motivo che si riscontrano tracce liguri-sicule in tante regioni italiane.
Nel 1963 fu rinvenuta una lapide scritta in dialetto dorico, la quale, tradotta dall’epigrafista catanese Giacomo Manganaro, rivelò essere un trattato di“riconoscimento ufficiale dei vincoli di parentela, di amicizia e di ospitalità, che legavano i Centuripini con i Lanuvini… il Senato di Lanuvio riconobbe la fondatezza della richiesta centuripina ed emanò il decreto di convalida dei remoti vincoli di parentela fra i due popoli”.
Il Sindaco di Lanuvio nel 1971 propose al suo omologo di Centuripe di rinnovare l’antico gemellaggio,. Da allora periodicamente il gemellaggio tra le due cittadine viene rinnovato nei mesi di maggio e di settembre, con l’incontro dei massimi rappresentanti dei due comuni.
Tale ritrovamento confermò la tesi di Giuseppe Brex, un autore nato a Centuripe nel 1896 e morto a Lanuvio presso Roma nel 1972, autore di un testo, intitolato proprio Saturnia Tellus e stampato a Roma nel 1944: tale tesi stabiliva che il “primato italico” sia da attribuirsi al popolo dei Siculi
La quarta ipotesi si basa su un’iscrizione, del il faraone Merenptah (1208 a.C.) ricorda la sua vittoria su una prima ondata di invasione, nella quale avrebbe ucciso 6.000 nemici e fatto 9.000 prigionieri. L’attacco venne condotto da una coalizione composta da tre tribù Libiche (Libu, Kehek e Mushuash) e dai ” forestieri del mare”, composti da cinque gruppi (Eqweš o Akawaša, Tereš o Turša, Lukka, Šardana o Šerden e Šekeleš).
Un’iscrizione del tempio di Ramesse III a Medinet Habu (Tebe) racconta che, circa venti anni più tardi, Ramesse III dovette respingere una seconda invasione degli Haunebu. I popoli del mare si erano coalizzati questa volta con i Filistei ed erano composti da Peleset, Zeker o Tjeker, Šekeleš, Danuna o Denyen, Šerden e Wešeš.
I Šekeleš sono stati messi in relazione con la Sicilia e i Siculi, ma potrebbero identificarsi anche con i Sicani. Sarebbero arrivati nell’isola dopo essere stati respinti in Egitto. Se la teoria che vuole identificare i Šekeleš con i Siculi fosse corretta, essi avrebbero delle origini più traverse di quanto si sia mai ipotizzato, e sarebbero giunti in Sicilia dopo essere stati respinti in Egitto. In effetti a dimostrazione di questa tesi c’è il fatto che il re siculo Hyblon aveva lo stesso nome di una divinità come accedeva spesso in Egitto. Secondo alcuni studiosi i Siculi erano una delle tante tribù che popolavano la Sardegna e in seguito giunsero in Sicilia, dove si stanziarono e fondarono delle colonie.
Delle città abitate dai Siculi ricordiamo:
1) Palikè, che venne rifondata da Ducezio nel 453 a.C. La città fu fondata sull’altura che domina la pianura dove si trovava l’antico santuario dei Palici, divinità indigene ben presto inserite nel pantheon greco. All’età arcaica risalgono le più antiche strutture che si possono attribuire al santuario dei Palici che viene ricostruito con strutture monumentali, quali portici e sala da banchetto nel V secolo a.C. probabilmente grazie all’iniziativa di Ducezio, capo siculo che avrebbe fissato la sede della sua lega di città sicule proprio presso il santuario del Palici. Il tempio sarebbe sorto sulle rive mefitiche del laghetto, dove si svolgevano alcuni riti tramite i quali i sacerdoti eseguivano vaticini e ordalie.
2) Pantalica-Hybla la quale sarebbe stata Sicana, poi i Sicani avrebbero lasciato il posto ai Siculi, facendoli fuggire verso la parte meridionale ed occidentale dell’isola, e solo con i Siculi, fra alterne vicende, divenne il più importante abitato della Sicilia Orientale, la Hybla del Regno siculo di Re Hyblon.
Sono di origine sicula vari toponimi:
– Messina denominata Zankle cioè falce;
– Catania, il cui nome deriva dal siculo Katane, che significa «scorticatoio, grattugia», dal terreno lavico su cui sorge;
– Siracusa chiamata Sùraka, che indica «abbondanza d’acqua» per la vicinanza dei fiumi Anapo e Ciane, del torrente Mammajabica e degli acquitrini detti Margi.
Lo studio dell’alimentazione antica si basa in buona parte sui testi e tra questi i piú ricchi di notizie sono certamente quelli greci. Quasi tutti gli autori ellenici parlarono di cibi, di banchetti e di vino, argomenti che sembrarono affascinarli ed essi diedero notizie sull’argomento in molti dei loro lavori.
Altri studiosi sempre greci compilarono poi libri che avevano come unico argomento la cucina o i suoi ingredienti e si ha notizia di ben 20 trattati specializzati sull’argomento, tutti purtroppo andati persi, compresa la raffinatissima Edifagetica, opera in versi, di uno dei piú grandi gastronomi di tutti i tempi: Archestrato di Gela.
Fortunatamente, tutte queste notizie sugli antichi banchetti non sono completamente scomparse.
Anzi brani riguardanti tale argomento sono le uniche sopravvivenze di molti autori greci.
La compilazione di quest’opera antologica si deve ad un Greculo – nome con il quale i Romani indicavano gli immigrati greci – il quale, abbandonando la natia Naucratis in Egitto, si era trasferito a Roma per divenire il bibliotecario di P.Livio Larense, un ricco patrizio discendente da Varrone e proprietario di una vastissima biblioteca. L’impiego forní ad Ateneo (cosí si chiamava lo studioso) un meraviglioso strumento che gli permise di redigere con amorosa cura la sua colossale opera intitolata”Deipnosophistai” (Deipnosofisti o I dotti a banchetto ovvero I filosofi esperti dei misteri della culinaria), un trattato diviso in ben quindici libri ed ovviamente dedicato al suo datore di lavoro.
Nell’opera Ateneo racconta ad un amico, Timocrate (secondo il modello classico del Simposio di Platone) un banchetto, appunto, in cui uomini dotti si intrattengono in un dialogo in cui dibattono riguardo a un ampio spettro di argomenti. Lusso, dieta, salute, sesso, musica, umorismo e lessicografia greca sono tutti argomenti che vengono trattati, ma il centro del dialogo è il cibo, il vino e il divertimento. L’opera è inoltre una valida fonte per gli studi riguardanti la sessualità nella Grecia ellenistica.
Senza il lavoro di Ateneo sarebbero andate perdute molte importanti informazioni sul mondo antico e molti autori sarebbero rimasti totalmente sconosciuti, fra cui 62 frammenti (circa 300 versi) di Archestrato, un siculo di Gela. “Ἀρχέστρατός τε ὁ Γελῷος…Archestrato di Gela”, raccolti sotto un unico titolo: Hedypàtheia (Le delizie della vita) e fra i quali viene, ad esempio, riportato:
“Ma, lasciando le ciance, abbiiti cura
l’astaco di comprar, quel che ha le mani e sulla terra lentamente salta.
“Lodo ogni anguilla, ma la più squisita |
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“E mangia l’elope [storione], soprattutto nell’illustre Siracusa, è il migliore; questo ha origine da lì, così che quando è pescato intorno alle isole o alla costa d’Asia o di Creta vi giunge sottile e duro e sbattollato dalle onde”.
“Prendi da Gesonia, quando giungi a Mileto il cefalo cestreo ( a punteruolo) e il pesce- lupo divino. Lì, infatti, sono i migliori, e tale è la natura del luogo….essi interi e con tutte le squame a fuoco lento falli arrostire e portali a mensa acconciamente morbidi in acqua e sale e mentre ti affatichi a preparare tale pietanza, non si accosti a te né Siracusano né Italiota; non sanno infatti preparare pesci squisiti, ma guastano il sapore imbrattando il tutto di formaggio e spruzzando liquido aceto e spargendo di salsa di silfio. Sono però quelli che meglio di tutti sapientemente preparano i pesciolini di scoglio tre volte maledetti e sono in grado di allestire con arte un banchetto di manicaretti pieni tutti di inezie e colmi di grasso.” “Alla sacra d’intorno ed ampia Samo |
Nei Deipnosofisti troviamo non soltanto notizie dettagliatissime sull’alimentazione e sulla cucina dell’antica Ellade dai tempi di Omero in poi, ma veniamo altresí informati su quanto veniva servito nei banchetti di tutto o quasi tutto il bacino del Mediterraneo.
Né la curiositá degli autori Greci si fermò a quest’area ed alle coste di questo mare: essa si rivolse anche ai popoli piú lontani. Megastene ad esempio, uno scrittore greco di epoca ellenistica, descrisse addirittura cosa venisse servito agli Indiani di quei tempi e nel secondo libro della sua Storia dell’India raccontò come in quel lontano paese si ponesse accanto ad ognuno dei convitati una bassa tavola individuale con su un certo numero di salse di carne fortemente speziate ed una ciotola d’oro riempita di riso bollito. (ricerca – credo che ci sia anche qualche rappresentazione figurata: vedere di trovarla). Quindi già allora l’alimentazione indiana si basava sul curry.
Non era soltanto Megastene però a parlare di popoli lontani.
Le notizie raccolte da Ateneo nei vari testi da lui esaminati riguardavano tutti i popoli esistenti all’epoca. Dalla Spagna giungevano fino all’India: parlavano dei banchetti dei Celti, dei Germani, dei Traci, degli antichi Siriani, dei Persiani, dei Parti, degli Egizi e davano pure notizie sui misteriosi e, per i Greci, scostumatissimi Etruschi. Retori e grammatici alessandrini si ridevano nei loro scritti dei Fenici mangiatori di pesce affumicato, citavano il cumino etiopico, lodavano le mele di Babilonia e, mentre commentavano sfavorevolmente l’immoralità degli uomini veramente un pó troppo effeminati di tale città, esaltavano il lusso delle loro tavole. Insomma i banchetti, la cucina, gli orti, i campi, i mari, gli allevamenti e le conserve di tutto il mondo allora conosciuto furono esplorate e commentate dai Greci ed Ateneo, attraverso un’intelligente rilettura dei testi di ogni epoca, riuní queste notizie nella sua antologia creando un’opera piena di interesse e tuttora di facile e scorrevole lettura.
Già nel V° secolo a.c. l’alimentazione greca si era immensamente arricchita ed era divenuta estremamente variata: la dieta che limitava i pasti all’arrosto ed al pane dei secoli precedenti era integrata da antipasti, pesce, crostacei, molluschi, verdure, insalate, frutta e dolci ai precedenti tempi di Omero.
Ad esempio, Aristofane, parlando dell’antipasto, citava dalle comuni olive in salamoia “sode come corpi di vergini”, alle un pó sconcertanti cavallette e cicale, che venivano servite dopo averle catturate su un giunco sottile, ed alle cozze, ostriche ed altre conchiglie bivalvi grosse, gustate crude oppure poste ad aprirsi su un letto di braci.
Anche Epicarmo, l’esponente della commedia dorica, elenca una varietà sorprendente di frutti di mare “Fu portato un piatto con ogni genere di molluschi: patelle, astaci, crabizi, chichiballi (conchiglia sconosciuta), ascidie, ghiande di mare, murici, ostriche ben serrate – che non é facile aprire mentre mangiarle lo é -, cozze, chiocciole di mare, buccine, lunghi e cilindrici cannolicchi, melenidi – nere conchiglie dalla quale traggono profitto i fanciulli che le raccolgono – ed infine telline…”
I pesci ed i crostacei trionfavano non soltanto sulle mense, ma anche nell’arte figurativa come elementi di decorazione e molte sono le coppe, le urne ed i crateri nei quali essi compaiono
Naturalmente si serviva anche tanta carne, spesso lessata e lasciata cuocere a lungo, dato che, in un’epoca nella quale non si avevano allevamenti speciali, la carne bovina doveva esser piuttosto tigliosa.
Con tutte queste portate il banchetto greco diventava una cosa estremamente seria che richiedeva appetiti superumani e molto tempo a propria disposizione. Un’ulteriore idea puó darla un brano del poema intitolato Il banchetto di Filosseno di Citera: “…Due schiavi ben unti ci portarono una tavola, altri ne portarono un’altra ed altri ancora una terza fino a che non ne ebbero empito la stanza. Ai raggi delle lampade appese al soffitto le tavole, cariche di vassoi e di salsiere (ricerca) piene di……. (manca nel testo) e di tutte quelle invenzioni che rendono piacevole la vita e affascinano lo spirito, risplendevano. Alcuni schiavi posero accanto a noi ceste piene di pane d’orzo bianco come la neve, altri pagnotte di farina di grano. Dopo, per rompere il nostro digiuno, ci passarono non un tegame ma un grandissimo vassoio ben lavorato, un luccicante piatto pieno di bocconi di anguilla da far venir appetito anche ad un dio. Poi arrivó un altro recipiente dello stesso tipo ed in esso vi era una razza ben tonda. C’erano poi teglie piú piccole: una di pesce smeriglio e l’altra di razza. Un altro piatto saporito era fatto con calamari e seppie dai molli tentacoli. Dopo ci fu un cefalo arrosto: un pesce grande quanto tutta la tavola, appena tolto dal fuoco ed ancora fumante. In seguito calamari infarinati (e fritti) e curvi gamberi ben rosolati. Poi avemmo pani a forma di petali di fiore, panini dolci di fior di farina e focacce coperte di salsa agrodolce piú grandi di un tegame. Questo viene da me e da te chiamato l’ombellico del banchetto. Appresso arrivó un’enorme fetta di tonno fresco appena pescato tagliato nella parte piú spessa della ventresca ed arrostito…”.
Poi il poeta passa alla descrizione delle carni e degli altri piatti che vennero serviti: talmente tanti che il poeta si dice incapace di contarli, ma li elenca l’uno dopo l’altro in un’interminabile lista: interiora; trippa, lombo e coscio di maiale domestico; capretto di latte spaccato in due; braciole, piedini di maiale, costiglie e testina sempre di maiale ed un filetto insaporito col silfio. Né si ferma a questo, perché racconta che, quando i vassoi contenenti queste pietanze furono vuotati, ne vennero portati altri contenenti capretti ed agnelli sia bolliti che arrostiti. Poi si offrirono lepri, galletti, pernice calda e colombacci. Pane in abbondanza naturalmente e col pane miele, cagliata e formaggio fresco e tenero.
Dopo che tutti avevano mangiato e bevuto a piacimento si provvedeva a lavar loro le mani, operazione indispensabile alla fine di ogni banchetto, dato che a quei tempi si mangiava con le dita.
Pertanto, quando i Greci, provenienti dalla la maggiore delle isole Cicladi nel mar Egeo, nel 735 a.C., sbarcarono per la prima volta in un punto del litorale ionico, che poi si chiamerà Naxos, ed i Corinzi di Archia nel 734 a.C. a Siracusa, trovarono, in tutta la Sicilia orientale i Siculi (mentre nelle Sicilia occidentale, prosperavano i Sicani e gli Elimi), in cui si era sviluppata una cucina autoctona.
Vero è che i Greci portarono una civiltà superiore, poiché introdussero la scrittura, l’arte e l’architettura.
Ma, dal punto di vista delle abitudini alimentari, l’unico dono dei Greci alla Sicilia può essere circoscritto nel travasamento dell’esperienza sugli innesti della vite vinifera (viti selvagge erano già presenti nell’Isola) e sulla vinificazione.
E’ anche probabile che i Greci abbiano introdotto in Sicilia l’uso di foggiare un notevole numero di tipi di pane, usanza greca dovuta al fatto che ogni città aveva le sue varietà preferite e pare che ne esistessero ben 66, anche se il discorso riguardava soltanto i giorni di festa.
La popolazione indigena dell’Isola aveva già costruito la grandiosa necropoli di Pantalica, capitale dell’antico regno di Hybla che fra il XIII a l’VIII sec. a.C. fu attivissima e fondò Siracusa come suo scalo marittimo.
Ma già nel Megalitico le popolazioni del Siracusano, che avevano popolato Malta a Gozo, avevano dato vita ad una forma di civiltà tanto progredita da far scaturire perfino l’unica religione occidentale che si conosca: quella del culto della Dea Madre, raffigurata incinta nelle vivaci statuette in globigerina ritrovate nell’Ipogeo di Hal Safieni a Malta.
Dalla esposizione degli arredi alla radio datazione al carbonio su tutto quanto ci è pervenuto da questo grandioso sistema di tombe sotterranee, non per deduzioni, ma per certissime testimonianze oggi possiamo apprendere molte abitudini alimentari di quelle popolazioni che, 9000 anni fa, conferivano quale dono votivo alla Dea Madre il miele frammisto alla ricotta, sicuramente il primo dolce dell’umanità.
E non dimentichiamo che lo stesso nome di Malta, da “melita”, significa miele.
Ed ecco come potrebbe essere composto un ideale menù della cucina dei Siculi:
Ed ecco le relative ricette:
Raccogliete le olive nella prima settimana di ottobre, anche se la maturazione dipende dal caldo estivo: così si ha una maggiore uniformità di colore ed una maggiore durata prima del consumo, la quale può arrivare anche a cinque anni (come è accaduto a me, per essermi dimenticato di consumare una boccia negli anni precedenti).
Dopo averle lavate, scolatale e mettetele in contenitori di vetro (una volta si usavano le giare di terracotta), aggiungendo un paio di spicchi di aglio rosso di Nubia (in provincia di Trapani).
Oggi si aggiunge anche qualche peperoncino intero.
Quindi, preparate una soluzione di acqua e sale, con circa il 10% in peso di sale, e riempite i contenitori di vetro.
Raccogliete, avendo cura di evitare piante anche solo potenzialmente inquinate soprattutto da attività umane, e lavate bene alcuni rametti freschi di finocchio (Foeniculum vulgare, quello classificato alla fine del 700 dal botanico scozzese Philip Miller e che cresce spontaneamente nei campi della nostra Isola d’estate e che si raccoglie proprio a fine settembre, sempre che non abbia piovuto troppo nelle settimane precedenti).
Togliete tutte le foglie rinsecchite, lasciando sempre i semini e formate delle corpose coroncine, disponendole all’interno del coronamento del contenitore già pieno di olive e soluzione di acqua e sale, in modo tale da favorirne il loro totale affondamento nel liquido.
Se qualche oliva non rimanesse coperta dalla salamoia, quasi certamente, rimanendo in contatto con l’aria, si rovinerà, con il rischio che rovini tutto il contenuto rimanente.
Chiudete con un tappo non troppo ermeticamente, in modo tale da consentire ai gas di fermentazione vegetale, che si formano internamente, di fuoriuscire, evitando l’effetto “di effervescenza” al momento dell’apertura o addirittura danni al contenuto, che si potrebbe rammollire per effetto della pressione del detto gas.
Etichettate sempre i vostri contenitori, indicando la data di raccolta e la percentuale di sale utilizzata, per migliorare l’anno dopo
Dopo circa sei mesi, le olive possono essere consumate direttamente dal vasetto od utilizzate come ingrediente di altre preparazioni: ad esempio, saltate in padella con un filo d’olio ed accompagnate da una bella fetta di pane abbrustolito.
Versate una tazza di lupini secchi, sciacquati e sgusciati, in una pentola di acqua.
Dopo 24 ore circa, scolate i lupini, riempite la pentola di acqua e portate ad ebollizione.
Fate bollire lentamente per 1-2 ore, fino a quando i lupini siano cotti ed ammorbiditi (ma non sfatti).
Scolate e sciacquate i lupini cotti e mettete in un contenitore, coprendoli con acqua e tenete in fresco (o meglio in frigorifero), cambiando l’acqua una volta al giorno per dieci o quindi giorni (in modo tale che lupini perdano tutta l’amaro del gusto).
Successivamente, nell’acqua del contenitore, aggiungete sale (a piacere): in tal modo, possono essere conservati in fresco per molte settimane.
Quando servono, si tolgono dal vaso e, nel caso della nostra ricetta, si condiscono con olio d’oliva extravergine, aglio tritato grossolanamente e qualche foglie di salvia tritata.
Fra i Frammenti di Hedypàtheia riportati in Deipnosophistai ce n’é uno che recita:
L’amia [sgombro] in autunno, quando son calate
ver l’occaso le Plejadi, apparecchia
come ti piace: e perchè dir più oltre?
quella guastare, se ne avrai pur voglia,
tu non potrai. Ma se desir ti spinge,
o caro Mosco, di sapere il modo
con cui vien più gustosa, io pur dirollo.
Nelle foglie di fico la prepara
con rigamo non molto, senza cacio,
senz’altro untume; quando l’hai sì concia
semplicemente, in mezzo a quelle foglie
l’avvolgi, e sopra legala con giunco.
Mettila poscia sotto il cener caldo,
e colla mente va cogliendo il tempo
che sia bene arrostita, e statti all’erta
di non farla bruciar: ma t’abbii quella
dell’amena Bizanzio se eccellente
aver la vuoi.
E questa ricetta è stata ripresa dal famoso che siciliano Carmelo Chiaromonte e presentata col nome di “sgombro alla maniera antica” nella scorsa edizione di Città del Gusto a Roma, in cui è stata organizzata una serata siciliana dedicata al pesce azzurro.
Sfilettate e spinate due sgombri, traendone quattro filetti.
Lavare quattro foglie di fico, asciugatele e stendetele su un piano.
Ponete su ogni foglia i singoli filetti di sgombro e condite solo con un pizzico di fior di sale (se volete, la ricetta di Archestrato prevede anche l’origano).
Chiudete a fazzoletto le foglie di fico e capovolgetele (in modo da tenere la chiusura nel lato inferiore).
Le foglie così ottenute si possono cuocere sotto la cenere calda (come vuole tradizione), al barbecue oppure semplicemente in forno, a 200° per 15 minuti.
Con questa cottura, il sapore spiccato del pesce azzurro viene mitigato dall’aroma di mandorla e di nocciola del fico e mantiene umidità e morbidezza.
Cuocete bene lo sgombro, soprattutto d’estate, stagione in cui nel pesce azzurro possono svilupparsi larve e batteri che vengono ammazzati solo dalle alte temperature.
Una volta aperto il fagottino di fico e sgombro, se volete, potete condire con olio di oliva extravergine, con sapore tale che non sovrasti il sapore della preparazione.
Mia nonna mi preparava sempre questo dolce, utilizzando una tazza oppure tutto su un fetta di pane
Prendete la ricotta, a temperatura ambiente, non fredda da frigorifero.
Appoggiatela in una ciotola.
Fate colare sulla ricotta una quantità a piacere di miele, preferibilmente di castagno
Spolverizzate con pepe nero.
Menù della Sicilia preistorica (da non si sa al 5000 a.C.) La Maggior parte degli studiosi è concorde nel ritenere
Menù Neolitico dei Sicani (5000 a.C. – 2000 a.C.) La Sicilia è famosa, fin dalle nostre più remote reminiscenze scolastiche
Menù degli Elimi (1000 a.C – 500 a.C.) L’origine degli Elimi è stata ed è, tuttora, una questione di difficile