Menù dei Monsù (fine 1800)

Sarde a beccafico

Menù dei Monsù (fine 1800)

Fino a tutto il 500 l’Italia fu il punto di riferimento nella gastronomia europea: i banchetti della penisola, che duravano giornate intere, con carni e condimenti ricchissimi, tempi di cottura notevoli, erano l’esempio da seguire per le corti e la nobiltà, con la loro opulenza e teatralità nella presentazione.

Palazzo Biscari a CataniaCon Luigi XIV, la Francia diventò una potenza dominante ed egemone, la cultura e la lingua francese si diffusero ovunque e con essa anche le regole fissate dalla grande cucina francese del seicento. Quest’ultima finì con l’emergere in tutti quei paesi dove ormai la lingua ufficiale era il francese e non c’erano norme religiose che condizionavano le regole culinarie, fra cui le corti di Spagna e del Regno borbonico delle due Sicilie.

Maria Carolina d’Austria, tredicesima figlia di Maria Teresa D’Asburgo, sposò nel 1768 Ferdinando I di Borbone è stata una figura fondamentale (e inconsapevole) per la storia e la tradizione della cucina italiana e in particolare per la cucina siciliana. Infatti, quando si sposò, Carolina introdusse con insistenza i cuochi francesi, simbolo di eleganza e ricchezza, all’interno della corte borbonica, dando impulso all’ingresso della figura del Monsù nella case di tutti i nobili del regno; quindi, la nobiltà siciliana del ‘700, consumava piatti francesi preparati dal proprio cuoco francese: il Monsù.

Monsù fu un appellativo, derivante dal francese “Monsieur” ovvero Signore (a Napoli e dintorni, erano invece detti Monzù).

Chiamati talvolta con il nome di battesimo ed il cognome della famiglia presso cui prestavano servizio, altre volte con nomignoli suggestivi; alcuni di loro raggiunsero grande fama fino ad essere trattati alla stregua di artisti ed i nomi di alcuni di loro sono giunti fino a noi, in quanto il titolo di Monsù era motivo di orgoglio e si tramandava da padre in figlio.

Alberto Denti di Piraino ricordava che “…il titolo di Monsù si dava ai cuochi di casata“, cioè a quanti avevano il privilegio di servire in case patrizie. Gli altri, al lavoro magari presso gente ricchissima, ma non titolata, erano cuochi di paglietta e venivano considerati “gente da non frequentare“.

Il Monsù era colui che dava il tocco di eleganza ed originalità alle pietanze, signore e capo della cucina, e che si contraddistingueva dagli apprendisti..

Descrizione di monsieur, origine del nome Monsù

Non c’era aristocratico nel Regno delle due Sicilie che non avesse nella buia, umida, ampia cucina un cuoco francese.

Contesi dalla nobiltà dell’epoca, perfino, raccontano le cronache, a costo di duelli, sono stati questi grandi cuochi che consolidarono, fra Sette e Ottocento, la grande cucina baronale, descritta da scrittori come Tomasi di Lampedusa ne “Il Gattopardo” o De Roberto ne “I Vicerè“.

In tutti i Palazzi della nobiltà palermitana c’era sempre il “quarto del Monsù”: un appartamento tutto per lui, un alloggio privato, come si rileva dai documenti notarili.

Ma i signori siciliani, se nei pranzi ufficiali e nelle grandi riunioni conviviali, gustavano con piacere i delicati sapori francesi, nel quotidiano invitavano i loro Monsù a creare cibi più robusti e dai sapori più decisi.

I Monsù, realizzavano per i loro signori, una serie di pietanze rielaborate con l’arte raffinata di chi sa bene utilizzare l’alchimia dei sapori e degli odori, utilizzando quanto la terra di siciliana produceva.

I Monsù rielaborarono con sapienza quanto a loro disposizione, creando piatti che consumiamo ancora oggi: il gateaux di patate che si sicilianizza nel gatò, all’aglassato (un condimento della cucina nobile e adesso condimento tradizionale), ai timballi esternamente croccanti e ripieni di carne e formaggi, ai polli farciti di riso o i beccafico, cacciagione cucinata ripiena delle propria interiora, alla reinvezione della caponata agrodolce, agli involtini alla palermitana e il falsomagro.

Le antiche tradizioni alimentari isolane, i prodotti della terra, gli animali selvaggi o d’allevamento, i pesci del mare: il grande timballo, o il “pesce coricato” o le melenzane alla parmigiana, cotte “a fuoco sotto e fuoco sopra”, cioè con i carboni accesi pure sul coperchio di rame: erano piatti dai quali i Monsù trassero solo ulteriore ispirazione per le loro sontuose trasformazioni gastronomiche,

Questi piatti verranno e vengono anche oggi ulteriormente “imitati”, cambiando la carne o la cacciagione con prodotti più economici: per esempio abbiamo le sarde a beccafico o le melanzane o i peperoni ripieni di riso o la caponata di melanzane (invece che di capone).

Furono proprio i Monsù, a creare ricette per rendere mangiabile la carne dura e fibrosa di vecchie mucche. Inventarono per la carne vaccina una farcitura di verdurette e odori chiamata gentilmente in francese farcie de maigre, che poi, nell’interpretazione popolare divenne quel farsumagru, falso magro, riempito di ogni sorta di ben di Dio e lontano anni luce dal delicato piatto da cui aveva preso origine.

Torrechiara Acireale MonsùAl Monsù ci si rivolgeva dandogli del voi e la cosa più curiosa è che in Francia ai grandi cuochi, agli artisti della casseruola, si diede sempre del Maître.

Agli antichi Monsù, a quei lontani artisti della cucina, dobbiamo i nostri solenni ragoûts, i pâtés, i soufflés, le sontuose glasses e quei maccheroni en croûte profumati di burro e di carissimo parmigiano. Ma non solo quelle delizie.

Il Monsù rivestì un ruolo importante all’interno di una casa nobiliare: non fu un semplice cuoco, ebbe un proprio appartamento, una propria forma di pagamento (poteva avere uno stipendio fisso, o uno a serata o anche un pagamento a richiesta…), un libero professionista insomma.

Altra cosa straordinaria, in termini di evoluzione della cucina, che accadrà soprattutto in Sicilia, è l’influenza che la cucina dei Monsù riuscirà ad avere sulla cucina popolare, sfruttando il fertile terreno di ricette articolate, nonostante la povertà (con minor facilità in Campania), superando la storica divisione fra cucina povera e cucina nobiliare e dando i natali a quella cucina da strada eppure così ricca e articolata, presente ancora oggi in Sicilia. Gli originari Monsù, rigorosamente francesi, istruirono i volgari “cuochi di paglietta” siciliani (e campani) al loro servizio, dando vita ad una scuola che sarà francese solo nell’origine ma che poi sarà portata avanti da grandi personaggi rigorosamente italiani. Due su tutti ebbero il particolare merito e primato di scrivere dei ricettari ancora oggi attualissimi: Vincenzo Corrado con il suo Cuoco Galante e Ippolito Cavalcanti con La Cucina Casereccia.

Il Cuoco Galante fu pubblicato per la prima volta nel 1773 e fu ristampato diverse volte per poi però essere soppiantato dall’accattivante ricettario di Cavalcanti che rispetto al a Corrado, scrisse in dialetto e rese comprensibile e fruibili ricette complesse anche a chi non era così colto e di nobili origini come sia Corrado che Cavalcanti erano.

Di ricette da provare ce ne sono tante.

In un possibile menù dei Monsù potrebbero esserci:

  • Schiuma di merluzzo
  • Gatto di patate al formaggio
  • Caponata di Maria Carolina
  • Timballo del Gattopardo
  • Timballo di capellini
  • Carne agglassata
  • Sarde a beccafico
  • Gelatina al rhum

ed ecco le ricette:


SCHIUMA DI MERLUZZO

Sformato di merluzzo ovvero "tortinosemolinoforno"Il periodo migliore per gustare il merluzzo è la primavera e l’estate: sceglietelo grosso e polputo, consumatelo subito.

Bollite dei grossi merluzzi, spolpateli e pestateli fino a ridurli in crema.

Mescolateli con mollica di pane imbevuta di latte, con provola gustosa e passate tutto al setaccio.

Montate a neve il bianco d’uovo e mescolatevi l’impasto assieme ai tuorli con sale e pepe.

Imburrate una teglia, cospargetela di pangrattato e riponetevi il composto.

Fate cuocere e servite sformato.


GATTO’ DI PATATE AL FORMAGGIO

Gattò di patate al formaggioIl gattò deriva il suo nome dal francese gateau: è il risultato della capacità di trasformare la cucina senza tradire il gusto locale. Questa capacità dei Monsù è ben descritta nel celebre romanzo il Gattopardo nell’occasione del pranzo a Donnafugata (alla fine del post è riportato il passo). Il gattò viene preparato con le patate, ma anche con il riso in questo caso è la trasposizione al forno delle arancine.

Il gattò, nelle due versioni, è una ricetta ottima per “fare fuori” gli avanzi del frigo, dentro ci potete mettere tutto… o quasi.

Il gattò di patate al formaggio, è un piatto ricco che servito con contorno di verdure è un eccellente piatto unico.

Lessate 400 grammi di patate e fatele raffreddare un po’ per sbucciarle e poi schiacciarle con il passapatate.
Preparate una salsa con 2 cucchiai di olio, a cui si aggiunge a freddo prima un cucchiaio di farina rimescolando e poi lentamente 300 grammi di latte, sempre mescolando per evitare che si formino grumi.
Aggiungete uno spicchio d’aglio, un pezzetto di cipolla ed un pizzico di sale, mettete a cuocere e rimestate, fino a che la salsa non si addensa.
Eliminate l’aglio e la cipolla. Se si vuole un sapore più intenso aglio e cipolla si possono schiacciare con lo spremiaglio.
Aggiungete alla salsa i 50 grammi di grana grattugiato, un po’ di pepe bianco e noce moscata.
Aggiungete alle patate schiacciate un uovo, 50 grammi di pecorino grattugiato, il prezzemolo un pizzico di sale ed un cucchiaio di olio.
Lavorate bene il tutto con un cucchiaio di legno o meglio a mano. L’impasto va lavorato bene per non risultare granuloso.
Ungete una teglia e cospargerla di pangrattato, distribuite poco più della metà dell’impasto sul fondo della teglia e nei bordi.
Distribuite la salsa sull’impasto e ricopritela di un formaggio filante tipo mozzarella, scamorza, provola fresca.
Coprite con il restante impasto livellandolo con le mani appena inumidite.

Ungete la superficie del gattò con un paio di cucchiai di olio e spolverate con pangrattato.
Fate cuocere 30-40 minuti a 190°C.
Fate riposare a forno spento per 10 minuti prima di servire.

Nota alla ricetta

Nel ripieno si possono mettere anche salumi, ma non sono necessari anzi io li trovo eccessivi, a meno che non si debbano consumare avanzi, in questo caso io preferisco tritarli ed aggiungerli alla salsa di formaggio (che poi è una besciamella!).

La salsa al formaggio si può sostituire con un ragù, in questo caso non aggiungere i formaggi a pasta filata, ma solo una spolverata di grana.

Gli eccessi non si addicono alla buona cucina che è fatta di mescolanze equilibrate che non devono predominare, ma fondersi lasciando la possibilità di distinguere i sapori degli elementi. La buona cucina è fatta di prodotti di grande qualità.

Comprate da produttori locali, meglio se direttamente, non è difficile trovare al mercato i contadini con la loro merce.

 


CAPONATA DI MARIA CAROLINA
(REGINA DI NAPOLI MOGLIE DI RE FERDINANDO IV – 1752-1814)

Caponata di pesce spada

All’inizio veniva chiamata caponada, seguendo la voce catalana, poi la parola venne “sicilianizzata” in capunata e italianizzata in caponata.

Questo piatto mediterraneo ha le sue radici in comune con la ratatouille provenzale, con la caponada catalana, con lo sciakisciuka tunisino e col capon magro ligure – soprattutto nelle versioni più complete: caponata baronessa (con pesce spada, astice, gamberoni, asparagi), caponata duchessa (come baronessa e in più trionfo di aragoste e gamberi, asparagi selvatici, fondi di carciofo, e la salsa San Bernardo).

La “Caponata” non prevede i peperoni e le patate, la cui presenza sarebbe un’inconcepibile trasgressione. Le melanzane (quelle nere a pera!) fritte sono l’ingrediente che, nella cucina povera palermitana, andava a sostituire i tocchetti di capone fritto -lampuga- (o il coniglio, o il pollo) che soltanto i ricchi potevano permettersi.

Caponata baroccaLa vera caponata, comunque, richiede che ogni ingrediente venga fritto singolarmente, preferibilmente in olio extravergine di oliva, fatto sgocciolare, e, intiepidito o a temperatura ambiente, riunito agli altri nella cottura finale.

Piccola curiosità: a Siracusa viene chiamata ancora Bobbia – dall’antico siciliano il cui significato è “miscuglio di più sapori“.

La caponata ha origine dai Monsù, che l’avevano inventata come “CUONZA” (composto) per il pesce capone. La “caponata dei poveri” era dunque la “cuonza”, che successivamente, divenne uno dei piatti più noti e apprezzati della cultura gastronomica siciliana.

Ciò che determina la riuscita della caponata però dipende esclusivamente da un elemento, che poi è il fondamento stesso del senso filosofico di questo piatto e dell’essenza più profonda della sicilianità: l’agro dolce, che non deve essere mai troppo dolciastro, nè troppo “acitusu”.

Preparate le UOVA NERE

Li “ova niuri” sono delle uova sode sgusciate e messe in un barattolo di vetro a chiusura ermetica e colmato di aceto forte di vino bianco, aromatizzato con semi di finocchietto selvatico.

Dopo circa dieci giorni, il tempo varia a seconda della forza dell’aceto, si forma una patina grigio scura, da cui prendono il nome. Il sapore è corroborante.

Preparate le OLIVE RIPIENE (quelle fatte in casa sono sempre migliori)

“Alivi chini”, olive bianche in salamoia private del nòcciolo e ripiene con un cappero dissalato, un pezzo di fettina di falda di peperone al forno e spellato, e un pezzo di filetto di acciuga dissalata.

Preparate la Salsa San Bernardo

Tostate 150 grammi di mandorle pelate. Lasciatele raffreddare. Passatele al cutter assieme a 150 grammi di zucchero a velo.

Un piccolo consiglio: per evitare che le mandorle lascino troppo olio sotto l’azione del cutter, riponetele almeno 30 minuti in freezer.

Aggiungete 500 grammi di fette di pane, abbrustolito e tagliato a dadi, e cinque filetti di acciuga. Mettete il tutto in un pentolino a bagnomaria, aggiungendo 70 grammi di aceto aromatizzato al dragoncello. Quindi amalgamate 50 grammi di cioccolato fuso, fino ad ottenere una salsa liscia e di color marrone. Per renderla più liscia, passarla al cinese. Va usata tiepida.

Per marcare di più il sapore, aggiungete uno o due cucchiaini di cacao amaro in polvere, un po più di aceto ed uno o due filetti di acciuga: sono i tre sapori che si devono sentire in contemporanea e in maniera netta.

Nonostante questa salsa non incontri più i gusti odierni, provatela su degli asparagi o su dei fondi di carciofo.

Preparate la caponata

Infarinate e friggete 500 grammi di sedano, tagliato di sghembo e già sbianchito in acqua e sale per cinque minuti, in poco olio. Scolatelo e mettetelo da parte.

Tagliatele a dadi di circa 4 cm per lato un chilogrammo di melanzane, , lasciate per 30 minuti in acqua fredda e sale a perdere l’amaro (con le melanzane attuali non serve); quindi, friggetele nell’olio del sedano con aggiunta di nuovo olio se necessario. Scolatele e mettetele da parte.

Nello stesso olio, eventualmente rinfrescato, imbiondire 250 grammi di cipolle tagliate a mezza veneziana, aggiungete 150 grammi di capperi, sciacquati e strizzati, 250 grammi di olive bianche ripiene, 80 grammi di pinoli e 80 grammi di uva sultanina ammollata e ben strizzata.

Dorate leggermente il tutto e aggiungete melanzane e sedano.

Bagnate con 250 grammi di salsa densa di pomodoro (ottenuta con cipolla, pomodori pelati, zucchero, sale, pepe e basilico maggiore, quindi passata e ridotta del 50%).

Adesso la parte più importante: aggiungete la salsa San Berrnardo (oppure 200 grammi di aceto bianco e 70 grammi di zucchero).

Aggiungete alla padellona per la cottura finale:

  • un paio di fondi di carciofo, sbollentati in acqua e sale, infarinati e fritti,
  • 200 gr di punte di asparagi selvatici sbollentati
  • 300 gr di fettine di pesce spada, infarinate e fritte
  • 200 gr di code di astice e/o aragosta bollite
  • 200 gr di code di gamberi bollite.

Dopo due minuti assaggiare e correggere di aceto, zucchero, sale e pepe (ogni aceto è diverso e le proporzioni date sono puramente indicative).

Lasciate intiepidire in padella e apparecchiate un piatto di portata con uno strato di caponata, un po’ di basilico minore, uno di uova nere tagliate, come si diceva una volta, a soldoni, intervallate con delle code di gamberi e gamberoni lessi e conditi con olio, sale, pepe e menta piperita tritata; quindi uno strato di caponata, altre fette di uova nere e foglioline del cuore di sedano tritate. Disponete al centro un trionfo di code di aragosta e di code e chele di astice, anch’essi conditi.

Completate la preparazione con 50 grammi di bottarga di tonno tagliata sottilmente e del prezzemolo tritato grossolanamente.


TIMBALLO DEL GATTOPARDO

SI legge in “Il Gattopardo” di Giuseppe Tomasi di Lampedusa – Pranzo a Donnafugata – Il timballo di maccheroni ha la vittoria sul potage, grazie a Monsù Gaston cuoco di casa Salina.

Il Principe era troppo sperimentato per offrire a degli invitati siciliani, in un paese dell’interno, un pranzo che si iniziasse con un potage, e infrangeva tanto più facilmente le regole dell’alta cucina in quanto ciò corrispondeva ai propri gusti. Ma le informazioni sulla barbarica usanza forestiera di servire una brodaglia come primo piatto erano giunte con troppa insistenza ai maggiorenti di Donnafugata perché un residuo timore non palpitasse in loro all’inizio di ognuno di quei pranzi solenni. Perciò quando tre servitori in verde, oro e cipria entrarono recando ciascuno uno smisurato piatto d’argento che conteneva un torreggiante timballo di maccheroni, soltanto quattro su venti invitati si astennero dal manifestare una lieta sorpresa: il Principe e la Principessa perché se l’aspettavano, Angelica per affettazione e Concetta per mancanza di appetito. Tutti gli altri (Tancredi compreso, rincresce dirlo) manifestarono il loro sollievo in modi diversi, che andavano dai flautati grugniti estatici del notaio allo strilletto acuto di Francesco Paolo. Lo sguardo circolare minaccioso del padrone di casa troncò del resto subito queste manifestazioni indecorose. Buone creanze a parte, però, l’aspetto di quei monumentali pasticci era ben degno di evocare fremiti di ammirazione. L’oro brunito dell’involucro, la fragranza di zucchero e di cannella che ne emanava, non erano che il preludio della sensazione di delizia che si sprigionava dall’interno quando il coltello squarciava la crosta; ne erompeva dapprima un fumo carico di aromi e si scorgevano poi i fegatini di pollo, gli ovetti duri, le sfilettature di prosciutto, di pollo e di tartufi nella massa untuosa, caldissima dei maccheroncini corti, cui l’estratto di carne conferiva un prezioso color camoscio.

Timballo del GattopardoPer la pasta frolla, mischiate 480 grammi di farina 00, 180 grammi di burro, 35 grammi di zucchero, 50 grammi di Marsala fine, un uovo piccolo, un tuorlo, un terzo di cucchiaino di cannella (possibilmente grattugiata al momento da una stecca), un pizzico di sale ed impastate velocemente, fino ad ottenere una pasta abbastanza liscia e omogenea. Se necessario aggiungete un goccino extra di Marsala.

Dividere la pasta frolla in due parti, una più grossa dell’altra. Ricoprite con la pellicola e mettere in frigo.

Per il ripieno, pulire 200 grammi di funghi, affettateli e trifolateli in olio e aglio.

Scongelate i piselli. Tritare una cipolla e uno spicchio d’aglio con gli aghi di quattro rametti di rosmarino e fate appassire questo trito con olio e 50 grammi di burro.

Aggiungete al soffritto 300 grammi di sovracosce di pollo, tagliate finemente, facendo rosolate bene; poi aggiungete 300 grammi di carne tritata, 150 grammi di fegatini di pollo.
Cuocete su fuoco moderato per circa 10 minuti e sfumate con un bicchiere abbondante di Marsala secca.

Bagnate con un mestolo di brodo o acqua calda, unendovi due foglie di alloro e una stecca di cannella.
Cuocete a fuoco moderato con il coperchio, per circa 1/2 ora. Quando il ripieno sarà cotto, condite con sale e pepe, eliminate l’alloro e la cannella e aggiungete 200 grammi di tarturi neri e 150 grammi di piselli, quattro ovetti di quaglia sodi.

La consistenza deve essere piuttosto morbida, la pasta assorbirà l’eccesso di liquido. Se tuttavia dovesse essere troppo brodoso, sciogliete un cucchiaio di farina con un poco del fondo di cottura del ripieno, incorporatela alla carne e portate nuovamente a bollore.
Dopo aver cotto mezzo chilo di sedanini per poco meno dei 2/3 del tempo indicato sulla confezione, scolateli bene e freddateli subito sotto l’acqua fredda. Conditeli con una parte della salsa ottenuta ed 80 grammi di parmigiano grattugiato. La pasta deve risultare ben condita ma non troppo. Stendete una porzione grande di pasta frolla ad uno spessore di circa 5 mm e foderate il fondo e le pareti di uno stampo a cerniera ben imburrato. Spolverate il fondo dello stampo con un leggero strato di pangrattato (per evitare che il fondo risulti troppo bagnato) e fate poi uno strato non molto spesso di pasta. Riempite la teglia di pasta posizionandola soprattutto intorno ai bordi e mettete mestolate di ripieno al centro. Il ripieno dovrebbe avanzare. Stendete una porzione piccola di pasta frolla, di spessore inferiore del fondo e adagiatela sul pasticcio.

Saldate bene il coperchio ai bordi. Mettete la pasta il più possibile verso i bordi e riempite il centro con il ragù. Fate un buco del diametro di circa due centimetri al centro del pasticcio e inseritevi un cilindretto ottenuto rivestendo un grosso rigatone con carta d’alluminio oppure carta forno in modo da formare un camino da dove fuoriesca il vapore durante la cottura. Spennellate con uovo battuto intorno al foro e collocatevi un cordoncino di pasta frolla. Decorate la parte superiore del pasticcio con dischetti di pasta frolla ricavati dai resti. Spennellate la superficie del pasticcio con l’uovo sbattuto.

Mettete in forno preriscaldato a 190° C per 45 minuti circa. A fine cottura togliete il camino e fate scivolare il pasticcio sul piatto di portata. Aspettate qualche minuto prima di formare le porzioni e servire. Se si mangia il giorno dopo, riscaldate in forno e servite con un mestolino di ripieno avanzato bello caldo, perché la pasta tende ad asciugarsi.


TIMBALLO DI CAPELLINI

Timballo di capelliniSi tratta di una alternativa più semplice, ma pur aristocratica: lo si intuisce dalle abbondanti dosi di burro presenti nella ricetta; ingrediente che non si ritrova nelle cucine dei siciliani fino all’inizio del XVIII secolo, quando, per volontà dei reali Ferdinando e Carolina, rifugiatisi in Sicilia da Napoli per scappare all’esercito napoleonico, viene inaugurato a Partinico il primo caseificio. L’apertura del caseificio non significò la diffusione del burro in Sicilia, era un alimento costoso; i viaggiatori inglesi dell’800 riferiscono che solo a Palermo era disponibile.

Soffriggete una cipolla, due coste di sedano e due carote finemente triturate, quando sono appassite aggiungete 800 grammi di macinato, sfumatelo con un po’ di vino bianco, aggiungete 150 grammi di salsa di pomodoro (solo per colorare la carne), unite uva passa e pinoli e fate cuocere a fuoco basso per circa un’ora.

A cottura ultimata aggiungete 100 grammi di salame e 200 grammi di primosale tagliati a dadini e 100 grammi di piselli sbollentati.

Bollite i capellini in abbondante acqua e scolateli appena si piegano, lasciandoli praticamente crudi. Preparate in anticipo un grande recipiente dove avrete messo sul fondo il burro pestato con la forchetta; scolatevi sopra i capellini e rimestateli velocemente, aggiungete abbondante parmigiano. Imburrate una teglia e spolveratela di pangrattato. Mettete nel fondo uno strato di capellini imburrati, al centro il preparato di carne e chiudete con un altro strato di capellini. Spolverate col pangrattato, infornate nel forno precedentemente riscaldato al massimo, aspettate fino al formarsi della crosta, sformate.


CARNE AGGLASSATA

Carne agglassataL’aglassato (dal francese glacer), è il piatto nobile di carne della cucina siciliana, sia per il taglio pregiato della carne, che per il gusto raffinato della pietanza. La cipolla stracotta e certamente un tipo di cottura che deriva dalla cucina francese, l’uso della sugna al posto del burro è invece, presumibilmente, una variante locale alla originaria ricetta.

La stessa ricetta si diversifica non solo di provincia in provincia ma spesso addirittura anche tra famiglie della stessa città. Si potrebbe scrivere un intero trattato con tutte le varianti che mi è capitato di vedere, assaggiare, o di sentirne parlare o vederle scritte: con o senza pomodoro, con il vino bianco o marsala, con o senza patate, il rosmarino o l’alloro, per non parlare delle varianti con o senza olio sugna e burro, e di quelle con tipi diversi di carne.

Legate tocco di lacerto da 1,2 kg con lo spago, accentuando la forma a rollè e ponetelo in tegame, coperto per tre quarti di acqua, con quattro grosse cipolle affettate finemente, 200 grammi di sugna, gli aghi di un rametto di rosmarino, sale e pepe.

Lasciate cuocere a fuoco lentissimo per circa un’ora, aggiungete quindi un bicchiere di vino bianco.

Quando, dopo circa un’altra ora a fuoco lentissimo, il lacerto sarà entrato in cottura, alzate la fiamma e fate addensare il sugo rosolando nel contempo la carne. Se I’acqua fosse ancora molta, potrete toglierne una parte versandola di nuovo nel tegame man mano che la carne rosola.

A cottura ultimata togliete dal fuoco, lasciate raffreddare bene e tagliate il lacerto a fette sottili. Riscaldate nel sugo di cottura prima di servire, con contorno di patate, pure o verdure.

Note operative:

  • il lacerto si può usare sia di coscia che di spalla, tenendo presente che la carne il primo è più tenera e nel taglio delle fette può non risultare perfetta, la carne del secondo è più magra e più compatta e questo agevola il taglio.
  • la quantità di cipolle può sembrare esagerata, ma una volta stufate e cotte si riducono parecchio.
  • si preparava sempre di sabato sera per domenica a pranzo, sia perché la carne fredda si taglia meglio, sia perché lasciarla riposare nel suo brodo la insaporisce ulteriormente.
  • con il sughetto alle cipolle si può condire la pasta possibilmente fatta in casa, preferibilmente bucatini o spaccatelle, passando al setaccio una parte del fondo di cottura sia per rendere ancora più denso e vischioso il sugo per condire la pasta, sia per renderlo più appetibile a più piccoli, che in genere non fanno follie per le cipolle.
  • servite con verdure assassunate ovvero saltate in padella con olio e aglio (da assaisonnèes alla maniera dei Monsù, per rimanere in tema) oppure con pisellini in umido.

SARDE A BECCAFICO

Sarde a beccaficoUna delle ricette più conosciute ed apprezzate (è stato ufficialmente riconosciuto e inserito nella lista dei prodotti agroalimentari tradizionali italiani (P.A.T.) del Ministero delle Politiche Agricole, Alimentari e Forestali) è sicuramente quella delle Sarde a beccafico, che grazie al delicato equilibrio tra i sapori può essere servita sia come antipasto che come secondo piatto.

Le sarde a beccafico sono la versione più economica e popolare di un piatto di carne, estremamente pregiato, avente come ingrediente principale il Beccafico, un piccolo uccello ghiotto di fichi che, mangiandone tantissimi durante l’estate, diventava molto grasso e con le carni molto saporite; i nobili erano soliti cacciarli per poi consumarli farciti delle loro stesse viscere ed interiora. Per il popolo, ovviamente, questi uccelli erano un bene di lusso che non poteva permettersi e quindi le donne popolane palermitane, al servizio delle famiglie nobili, rielaborarono la ricetta utilizzando le più economiche sarde, riempiendole ed acconciandole come gli uccelletti.

In Sicilia ci sono molte versioni che variano da provincia a provincia, come la versione alla catanese, in cui si aggiunge il caciocavallo nella farcia e le sarde sono disposte a due e due, impanate e fritte.

Ecco come preparare la versione classica delle sarde a beccafico (alla palermitana):

Pulite le sarde, privandole delle teste e delle lische (lasciate la coda), sciacquatele bene, asciugatele e apritele a libro.

Nel frattempo preparate la “muddica atturrata” (il pangrattato abbrustolito): in una padella antiaderente mettete 10 cucchiai di pangrattato e fatelo dorare a fuoco basso; fate attenzione a non farlo bruciare. Non appena sarà ben colorato, togliete la padella dal fuoco e aggiungete un filo d’olio, amalgamando bene con il tutto. Mettete la “muddica atturrata” che avete preparato in una ciotola, aggiungete 100 grammi di passoline (in alternativa si può usare l’uva sultanina), 100 grammi di pinoli, mezzo cucchiaio di zucchero, il sale, il pepe, il prezzemolo tritato molto finemente e mescolate bene per amalgamare bene gli ingredienti.

Mettete un po’ della farcia ottenuta su ogni sarda e arrotolatela in modo da ottenere un involtino che disporrete, con la coda all’insù, su una teglia oleata, con una foglia di alloro; continuate in questo modo, alternando un involtino di sarda e una foglia di alloro, allineandoli sulla teglia. Aggiungete un filo d’olio sugli involtini, un po’ di succo di arancia (o limone), spolverate con del pangrattato e mettete in forno caldo per circa venti minuti. Gli involtini si possono infilzare con degli spiedini, alternando le sarde con foglie d’alloro e spicchio di cipolla per poi cuocerli al forno. Fate riposare qualche minuto, prima di servire.

Le sarde a beccafico si possono servire sia calde che fredde.

Se volete preparare le sarde a beccafico alla catanese ecco come fare:

Sarde a beccaficoPulite e lavate le sarde (come sopra descritto), asciugatele e mettete a macerare per un’ora in una ciotola con 2 bicchieri d’aceto rosso.

Preparate il ripieno come sopra descritto, sostituendo però metà del pangrattato con la stessa quantità di formaggio pecorino grattugiato, eliminando la passolina ed i pinoli ed aggiungendo uno spicchio d’aglio tritato e 100g di formaggio caciocavallo a dadini.

Mettete un po’ di ripieno, con due-tre dadini di caciocavallo su una sarda aperta a libro, su cui dovrete sovrapporre un’altra sarda (lasciando la pelle all’esterno) pressandola con la mano per farla aderire al ripieno; passate le sarde ripiene nella farina, poi nell’uovo sbattuto (già salato e pepato), nel pangrattato e poi friggetele in abbondante olio caldo.

Le sarde devono essere ben dorate e possono essere servite con una spruzzata di limone.


GELATINA AL RHUM

Non è un dessert comunemente consumato in Sicilia, almeno al giorno d’oggi.

La gelatina risulta comunque inaspettatamente piacevole e delicata, ma si consiglia di sostituire la gattopardesca “guarnigione rossa e verde di ciliegie e pistacchi” con sottili fettine di frutta fresca, pesca o arancia, per esempio

Gelatina al rhumTagliate la buccia di un limone e di un’arancia con il pelapatate In modo da togliere la parte Interna più bianca.

Mettetele in infusione in 400 grammi di rhum per qualche ora e poi aggiungete 350 grammi di acqua, mezza stecca di vaniglia e 150 grammi di zucchero.

Lasciate riposare per mezz’ora e nel frattempo con una forchetta schiacciate 200 grammi di ricotta, incorporate 50 grammi di zucchero a velo, 100 grammi di canditi e 50 grammi di cioccolata fondente tagliata a pezzetti; fate riposare in frigo per almeno mezz’ora.

Mettete in ammollo sette fogli di gelatina In acqua fredda e !asciateveli per 15 minuti. Ponete sul fuoco il tegame con il rhum e gli altri ingredienti, fate sciogliere bene lo zucchero e quando il liquido comincia a bollire togliete le scorze di arancia e di limone. Fate intiepidire poi aggiungetevi, dopo averli ben strizzati, i fogli di gelatina.

Versate una parte del liquido In cui avete la gelatina in una forma per budino del diametro di 22 cm, già bagnata da un velo d’acqua, e mettetela in frigo per mezz’ora, finché non inizia a solidificarsi.

Ponete al centro di questo primo strato qualche pezzo di savoiardo bagnato ìn acqua e rhum, mettetevi sopra un po’ di ricotta e canditi e poi procedete mettendo dei mezzi savoiardi, precedentemente bagnati appena di rhum, a corona attorno alla ricotta. . in questa fase è bene farsi aiutare da un’altra persona.

Lasciate uno spazio lungo i bordi dello stampo in modo da potervi versare la restante gelatina. Chiudete il composto di ricotta e canditi con un ultimo strato di savoiardi sempre bagnati in precedenza e poi ricoprite del tutto con la gelatina.

Tenete il dolce in frigo per almeno 6 ore.

Si consiglia di preparare questo dolce con largo anticipo, se possibile anche un giorno prima di utilizzarlo. Al momento di versare la gelatina sul piatto di portata, immergete lo stampo in acqua tiepida in modo da facilitarne lo svuotamento.

Decorate a piacere con ciliegine candite o pistacchi sgusciati.