Menù Borbonico (1719-1860)
Il passaggio della Sicilia dal possesso sabaudo a quello austriaco, nonostante l’accordo sulla carta tra le parti interessate, non fu facile, giacché la Sicilia era invasa da un esercito di 30.000 spagnoli che trovarono un ampio consenso tra i nobili siciliani.
Infuriò quindi la guerra tra Austriaci e Spagnoli per la conquista della Sicilia, che ebbe il suo culmine il 20 giugno 1719 occasione in cui si ebbe quella che passò alla storia come la più grande battaglia combattuta nell’isola dai tempi dei romani: la battaglia di Francavilla di Sicilia.
Il conflitto si concluse con il trattato dell’AIA del 1720: Carlo VI d’Austria, già re di Napoli, diventava anche il nuovo re di Sicilia.
Il duca di Monteleone fu confermato viceré.
Il dominio austriaco durò 14 anni. Carlo VI d’Austria si limitò ad una semplice gestione amministrativa, ma per non inimicarsi la Spagna, alla cui corona aspirava, mantenne l’Inquisizione (cosa che del resto aveva fatto anche il sabaudo! Quando c’è da guadagnare non si guarda in faccia nessuno!).
Dopo gli anni di dipendenza austriaca, Carlo Sebastiano di Borbone, futuro re di Spagna, figlio primogenito di delle seconde nozze di Filippo V con Elisabetta Farnese, e quindi duca di Parma e Piacenza, profittando della guerra di successione polacca, che impegnava militarmente l’Austria, con il sostegno spagnolo, vinse sugli austriaci nella battaglia di Bitonto del 1734 e fece il suo ingresso a Napoli il 10 maggio 1734.
Nel 1735 (a diciannove anni) assunse il titolo di Re di Napoli e in luglio venne incoronato a Palermo anche Re di Sicilia: la nuova monarchia borbonica liberò la Sicilia dalla condizione di viceregno, facendola ritornare ad essere uno stato indipendente, sebbene di fatto fosse unita a Napoli.
Il ramo italiano dei Borbone inizia la sua storia da qui.
Nel 1735 Carlo divenne sovrano di Sicilia.
Intenzionato a trasformare Napoli in una grande capitale europea, fu costruito il Real Teatro San Carlo, la Reggia di Portici e quella di Capodimonte, il Palazzo Reale di Caserta, gli alberghi dei poveri di Palermo e di Napoli, riaprì il palazzo reale di Palermo, fu avviata la riscoperta delle antiche città romane di Ercolano, Pompei e Stabia, sommerse dalla grande eruzione del Vesuvio del 79 d.C.: gli anni di Carlo III «furono anni di progresso deciso».
Sotto il figlio di Carlo di Borbone dal 1759, Ferdinando IV° (dal 1816 con il titolo di Ferdinando I° re delle Due Sicilie), l’isola si legò sempre più all’Italia.
Per tutto il secolo XVIII i baroni continuarono a mantenere una forte influenza sul potere politico.
La maggior parte dei siciliani viveva sotto la loro diretta giurisdizione; circa una ventina di famiglie possedeva un potere economico schiacciante e quelle più importanti vivevano in palazzi principeschi, seppure alcuni di essi fossero pieni di debiti.
Fin dall’inizio il dominio dei Borboni eclissò l’antica dignità di regno che la Sicilia aveva saputo conquistare nel tempo, riducendo l’isola ad anonimo territorio di conquista: ai siciliani furono tolti i pochi privilegi di cui ancora godevano e ogni prerogativa isolana.
Infatti, dal punto di vista economico, in quegli anni la Sicilia non ebbe lo sviluppo che i Borboni diedero alla Campania: ferrovie e le maggiori aree industriali, infatti, nacquero solo nel napoletano. In Sicilia, comunque, si sviluppò la produzione e il commercio dello zolfo, del sale, dei marmi, degli agrumi, del grano (la Sicilia, sin dal tempo degli antichi Romani, era il “granaio d’Europa”).
L’emigrazione in Sicilia, come del resto anche nel meridione, era ancora un fenomeno pressoché assente.
Esasperati dall’assolutismo borbonico, i siciliani conquistarono la libertà nel 1848 quando Ruggero Settimo, capo della rivoluzione, offrì il regno a Ferdinando Maria Alberto, duca di Genova e figlio di Carlo Alberto, che però non accettò.
Un anno dopo il sogno della Sicilia indipendente venne nuovamente infranto.
Nel 1860 le “giubbe rosse” di Garibaldi, in nome di Vittorio Emanuele II, secondo il proclama di Salemi, contribuì in modo determinante alla sconfitta dell’ultimo Re Borbonico e alla consegna della Sicilia ai Piemontesi.
Il capitolo più celebre della cucina siciliana è quello baronale.
Nelle sontuose dimore dei gattopardi dei secoli XVIII e XIX la tavola raggiunse opulenza e fasto straordinari.
Il popolo non aveva di che sfamarsi, ma i baroni e gli alti prelati si contendevano i più abili “monzù”, cioè i maestri della cucina (dal francese “monsieur”) che prendevano al loro servizio per avere sempre una tavola ricca di invenzioni spettacolari.
È rimasta celebre la descrizione che fece l’inglese Patrick Brydone di un pranzo offerto nel giugno del 1770 dalla nobiltà di Agrigento al proprio vescovo: «A tavola eravamo esattamente in trenta, ma sulla mia parola non credo che i piatti siano stati meno di un centinaio.
Erano tutti guarniti con le salse più succulente e delicate…
Non mancava nulla di ciò che può stimolare e stuzzicare il palato…».
Un saluto da Enzo Raneri
Pertanto un menù borbonico (ma non certo “popolare”) potrebbe essere il seguente:
• Timballo di maccheroni in crosta
• Cotiche ripienee
• Scursunera (gelato al gelsomino)
delle quali ecco le ricette.
Timballo di maccheroni in crosta
Tagliate 300 grammi di burro, ben freddo e sodo, a pezzettini.
Mischiate un pizzico di sale alla farina, ed usando il pollice e l’indice, amalgamate il burro a 600 grammi di farina senza impastare.
Con un po’ di pazienza non appena questo sarà stato assorbito dalla farina, fate la fontana ed impastate con poca acqua gasata e un uovo.
Se possedete un mixer, otterrete lo stesso risultato più facilmente operando con la stessa sequenza.
Lavorate velocemente, e quindi ricavarne due palle, una più grande ed una più piccola.
Lasciar riposare al fresco per qualche ora.
Per il sugo, ponete in un tegame col fondo spesso, 500 grammi di carne tritata, una fetta intera di prosciutto crudo, una costa di sedano e una carota tritati, quattro cipolle finemente affettate, 50 grammi di vino cotto (sapa), alcuni granelli di pepe nero, cinque chiodi di garofano, un pezzo di stecca di cannella, il tutto pestato insieme nel mortaio.
Aggiungere un bicchiere d’acqua e pochissimo sale.
Incoperchiate e fate cuocere molto lentamente.
Nel caso in cui non riusciste a trovare il vino cotto, aggiungere – man mano che il sugo si ritira – del buon vino vecchio o del Madera.
Cuocere lentamente per almeno tre o quattro ore, aggiungendo – se occorre – del liquido, sino a quando diventerà lucido e la carne sarà completamente disfatta.
Quasi a fine cottura aggiungete una buccia d’arancia, tritata o grattugiata.
A parte, mettete ad ammollare 20 grammi di funghi secchi in una tazza d’acqua calda; appena saranno morbidi, levateli dall’acqua e tritateli, filtrando l’acqua dell’ammollo.
Tagliate a fettine un chilogrammo di funghi (possibilmente porcini) freschi e metteteli a rosolare in un tegame assieme ai funghi ammollati e ad uno spicchio di aglio.
Sciogliete un cucchiaino da tè colmo di amido nel liquido filtrato dei funghi, aggiungere un quarto di litro di brodo di carne, fate ispessire sul fuoco.
Aggiungete i funghi già cotti dopo aver tolto lo spicchio d’aglio.
Far dare un bollore e spegnere il fuoco. L’intingolo deve risultare cremoso.
Lessate 750 grammi di maccheroncini rigati in acqua salata per soli 5 minuti, scolateli e conditeli con poco sugo e molto formaggio grattugiato.
Mischiate 300 grammi di polpettine di carne fritte (preparate a parte e piccole come una nocciola) alla veloutée di funghi.
Prendete la più piccola delle due palle di pasta, stendetela sull’asse infarinato, facendone un disco che disporrete su un piatto da forno imburrato e infarinato.
Cospargete il disco col rimanente formaggio grattugiato e, sopra questo, ponete uno strato di maccheroncini.
Disponetevi la veloutée di funghi con le polpettine, un po’ di pisellini, alcune fettine di tuma, e qualche cucchiaiata di sugo, quindi altri maccheroncini, etc., sino ad avere una cupola, che cospargerete con gli ultimi condimenti, avendo cura che sia simmetrica.
Spianate l’altro disco — che naturalmente sarà più grande del primo – e con delicatezza coprite la cupola di pasta.
Dopo averne sigillato accuratamente i bordi, praticate un foro esattamente alla sommità del timballo, introducendovi un camino di carta oleata.
Coi ritagli di pasta residui, decorate a piacere, e lucidate con un pennello intinto nell’uovo battuto.
Infornate a 200°C.
Fate fondere del burro in un tegamino, e mischiatelo con dello zucchero a velo.
Non appena il timballo sarà un po’ colorito, spennellate col preparato, rimettete in forno e fategli completare la cottura, finché avrà preso un bel colore.
Volendo, si può usare la pasta frolla dolce, così come usavano fare anticamente; ma questo tipo di impasto lo si consiglia poiché ne è più facile la manipolazione e la crosta risulta ben più sottile.
Cotiche ripiene
Lavate e pulite un paio di cotenne (possibilmente di maialino giovane o meglio da latte), lessatele in abbondante acqua salata per intenerirle ed asciugatele accuratamente.
Preparate la farcia interna, facendo rosolare una cipolla in olio d’oliva e aggiungendo poi, 100 grammi di salame casereccio (possibilmente del tipo Santangiolese) tagliato a dadini, 50 grammi di uva passa rinvenuta, 50 grammi di pinoli e 500 grammi di mollica di pane fresco.
Cuocete per qualche minuto, passate poi il composto in una terrina ed aggiungete tre uova, 100 grammi di caciocavallo fresco a dadini, un poco di prezzemolo tritato, sale e pepe.
A parte preparate la salsa di pomodoro, rosolando bene una cipolla nell’olio d’oliva e aggiungendo un chilogrammo di pomodori pelati e 100 grammi di concentrato di pomodoro, salare pepare.
Stendete le cotenne precedentemente lessate, e farcitele a mo’ di involtino con il composto, legate bene con dello spago da cucina e tuffatele nella salsa (in ebollizione) per almeno 30 minuti, insaporendola con alcuni semi di finocchio.
Dopo che le cotiche saranno pronte , fatele raffreddare ed affettarle.
Servite le cotenne caldissime accompagnandole con la salsa di cottura e crostoni di pane strofinati con aglio.
Scursunera “gelato al gelsomino”
Pianta spontanea, diffusa nelle campagne dell’Isola, era usata come antidoto al morso dei serpenti (in siciliano scursuni): i fiori erano usati per farne aroma di gelato completato da spruzzi di cannella in polvere.
Mettete 50 grammi di fiori di gelsomino, freschissimo appena colto, a macerare in mezzo litro d’acqua per qualche ora, quindi filtratelo.
Ponete una pentola sul fuoco con l’acqua aromatizzata che avrete ottenuto e portatela ad ebollizione.
Poi, versatevi 150 grammi di zucchero semolato e fatelo fondere mescolando continuamente.
Togliete dal fuoco e fate raffreddare, aggiungete gli albumi di quattro uova, un bicchierino di rum, mescolate e ponete in un contenitore nel congelatore o nella gelatiera finché non si sarà formato un sorbetto morbido. Servite in tavola.
Una volta invece del congelatore o della gelatiera si usavano dei blicchi di ghiaccio messi nella “ghiaccera”.