Menu degli Arbëreshë (Albanesi)

Menu dedicato agli Arbëreshë (Albanesi) che dopo il 1468 si stabilirono in Italia ove fondarono paesi e portarono cultura e ricette.
Briciole di pasta (Dromësat)

Menu degli Arbëreshë (Albanesi)

In Italia esistono cinquantadue paesi fondati dagli Albanesi che a partire dal 1400 hanno dato vita ad una convivenza pacifica portando usi e tradizioni culturali, come il rito greco bizantino e la cucina.

Menu degli Arbëreshë (Albanesi)
Menu degli Arbëreshë (Albanesi)

Dopo il 1468, la invasione turca e la disfatta della resistenza albanese, determinò una massiccia migrazione, che portò, per quasi un secolo, numerosi esuli albanesi a stabilirsi in Italia, ove fondarono paesi e portarono la loro gente ad integrarsi con quella locale.
Gli albanesi in Italia possono vantare di aver avuto ben 25 imperatori romani tra cui Massimino Trace del 235 al 238, Claudio il Gotico nel 268, Quintillio del 270, Aureliano del 275, Marco Aurelio Probo dal 276 al 282, per citarne alcuni. Di ascendenze arbereshe Papa Clemente XI, i suoi nonni venivano da Lezhë, il presidente del consiglio Francesco Crispi (1818 –1901) da Palazzo Adriano, colonia albanese, e il presidente della Repubblica Oscar Luigi Scalfaro di famiglia arbëreshe di Lamezia Terme, la famiglia Craxi e il banchiere Cuccia (1907 –2000), e filosofi come Antonio Gramsci (1891-1937) i nonni venivano dalla città di Gramshi. Persino il famoso attore Totò, al secolo Antonio Komneno de Curtis, era discendente di una nobilissima famiglia albanese.
Purtroppo molti paesi si sono ormai integrati anche come tradizioni e come lingua alle comunità italiane perdendo molto dei loro usi.

Gli albanesi in Sicilia
Gli albanesi in Sicilia

Gli albanesi in Sicilia sono circa 35 mila e rappresentano una minoranza etno-linguistica originaria dell’Albania e dalla seconda diaspora albanese dal Peloponneso, che vive principalmente in alcuni centri dell’entroterra della Sicilia occidentale, tra i monti Sicani e i monti di Piana degli Albanesi, nel palermitano, mantenendo un loro sistema politico, religioso oltre che linguistico e culturale, avendo una certa indipendenza dal territorio.

Le comunità albanesi sono cinque, tutte in provincia di Palermo, tuttavia solo tre paesi hanno conservato la lingua (Contessa Entellina, Piana degli Albanesi e Santa Cristina Gela), mentre negli altri due la lingua e la cultura originaria è del tutto estinta, essendo stati assimilati culturalmente da quella circostante e quindi caratterizzate da una marcata eredità storica e culturale arbëreshe (Mezzojuso/Munxifsi e Palazzo Adriano/Pallaci). Nelle suddette comunità, però, si è mantenuto il rito bizantino ortodosso, elemento religioso ed etnico che ricorda l’origine albanese. Una comunità di 15.000 arbëreshë vive nella città di Palermo.

Furono fondate da esuli albanesi Biancavilla (Callìcari), Bronte, San Michele di Ganzaria (CT) e Sant’Angelo Muxaro (AG), ma persero le loro caratteristiche etniche molto presto (intorno al XVII secolo).
Le popolazioni albanesi siciliane fu integrata nel 1990 da esuli dopo la caduta del regime albanese, come anche nel 1997 e nel 2002 da albanesi del Kossovo
Piana degli Albanese fu anche repubblica popolare indipendente, anche se per appena cinquanta giorni: successe tra il 1944 e il 1945.

Nell’immediato dopoguerra Piana degli Albanesi fu suo malgrado al centro della cronaca nazionale per l’eccidio perpetrato dalla banda di Salvatore Giuliano il primo maggio del 1947 ai danni dei lavoratori riuniti nella vicina località Portella della Ginestra.

La lingua albanese parlata delle comunità albanesi in Sicilia è la variante albanese toskë parlato nell’Albania centro meridionale e è molto utilizzata nelle comunità di Piana degli Albanesi e Contessa Entellina anche in radio private e in alcune riviste e periodici.

Gli albanesi nel sud Italia
Gli albanesi nel sud Italia

Ma ecco un elenco, suddiviso per regioni, di tutti i comuni “albanesi” in Italia:

Regione Provincia Paese in arbëreshe abitanti
Abruzzo Pescara Rosciano (fraz.di Badessa) Badhesa 3.243 Unica comunità arbëreshe dell’Abruzzo
Molise Campobasso Campomarino Këmarini 6.658 Comunità arbëreshe in via di estinzione. Mantiene tutt’oggi alcuni costumi.
Molise Campobasso Montecilfone Munxhufuni 1.588 L’albanese viene parlato abitualmente.
Molise Campobasso Portocannone Porkanuni 2.544 L’albanese viene parlato abitualmente.
Molise Campobasso Ururi Ruri 3.580 L’albanese viene parlato abitualmente.
Campania Avellino Greci Katundi 840 Unica comunità arbëreshe della Campania
Puglia Foggia Casalvecchio di Puglia Kazallveqi 2.082 L’albanese viene abitualmente parlato.
Puglia Foggia Chieuti Qefti 1.783 L’albanese viene abitualmente parlato.
Puglia Taranto San Marzano di San Giuseppe Shen Marcani 9.079 Unica comunità arbëreshe della provincia di Taranto.
Basilicata Potenza Barile Barilli 3.077 Lingua albanese parlata.
Basilicata Potenza Ginestra Zhura 718 Lingua albanese parlata.
Basilicata Potenza Maschito Mashqiti 1.834 Lingua albanese parlata.
Basilicata Potenza San Costantino Albanese Shën Kostandini Arbëresh 853 Lingua albanese parlata, rito bizantino e costumi mantenuti.
Basilicata Potenza San Paolo Albanese Shën Pali Arbëresh 334 Lingua albanese parlata, rito bizantino e costumi mantenuti.
Calabria Catanzaro Amato 874 Uso della lingua albanese scomparso.
Calabria Catanzaro Andali Dandalli 954
Calabria Catanzaro Caraffa di Catanzaro Gharrafa 2.069 La frazione di Ursito ha perso l’uso dell’arbëresh.
Calabria Catanzaro Curinga 6.704 Uso dell’arbëresh scomparso.
Calabria Catanzaro Gizzeria Jacari 3.833 Uso dell’arbëresh scomparso.
Calabria Catanzaro Lamezia Terme 70.674 Comunità arbëreshe presente solo nella frazione di Zangarona (Zingharona).
Calabria Catanzaro Maida 4.337 Comunità arbëreshe presente solo nella frazione di Vena di Maida (Vina).
Calabria Catanzaro Marcedusa Marçëdhùza 556
Calabria Cosenza Acquaformosa Firmoza 1.234
Calabria Cosenza Castroregio Kastërnexhi 378 Comunità arbëreshe* in via di estinzione nella frazione Farneta
Calabria Cosenza Cervicati Çervikati 955 Comunità estinta.
Calabria Cosenza Cerzeto Qana 1.377 La frazione di Cavallerizzo (Kejverici) è disabitata dalla frana del 7 marzo 2005.
Calabria Cosenza Civita Çifti 1.048
Calabria Cosenza Falconara Albanese Falkunara 1.406
Calabria Cosenza Firmo Ferma 2.365
Calabria Cosenza Frascineto Frasnita 2.378
Calabria Cosenza Lungro Ungra 2.508 Lingua, rito, costumi e tradizioni mantenute.
Calabria Cosenza Mongrassano Mungraxana 1.694 Comunità estinta.
Calabria Cosenza Plataci Pllatëni 888
Calabria Cosenza Rota Greca Rrota 1.170 Comunità estinta.
Calabria Cosenza San Basile Shën Vasili 1.161
Calabria Cosenza San Benedetto Ullano Shën Benedhiti 1.666
Calabria Cosenza San Cosmo Albanese Strigari 645
Calabria Cosenza San Demetrio Corone Shën Mitri 3.748
Calabria Cosenza San Giorgio Albanese Mbuzati 1.650
Calabria Cosenza San Lorenzo del Vallo Sullarënxa 3.457 Comunità estinta.
Calabria Cosenza San Martino di Finita Shën Mërtiri 1.247
Calabria Cosenza Santa Sofia d’Epiro Shën Sofia 3.001
Calabria Cosenza Santa Caterina Albanese Picilia 1.328
Calabria Cosenza Serra d’Aiello Serrë 511 Comunità estinta.
Calabria Cosenza Spezzano Albanese Spixana 7.220
Calabria Cosenza Vaccarizzo Albanese Vakarici 1.236
Calabria Crotone Carfizzi Karfici 868 Lingua albanese mantenuta.
Calabria Crotone Pallagorio Puheriu 1.627 Lingua albanese mantenuta.
Calabria Crotone San Nicola dell’Alto Shën Kolli 1.105 Lingua albanese mantenuta.
Sicilia Palermo Contessa Entellina Kundisë 2.073 Prima colonia albanese fondata, mantiene la lingua albanese, il rito bizantino e la cultura d’origine. I costumi sono stati recentemente ripresi.
Sicilia Palermo Mezzojuso Munxhifsi 2.867 Estinta. Mantiene solo il rito bizantino.
Sicilia Palermo Palazzo Adriano Pallaci 2.043 Estinta. Mantiene solo il rito bizantino.
Sicilia Palermo Piana degli Albanesi Hora e Arbëreshëvet 6.238 Comunità arbëreshe più grande e popolosa di Sicilia, unica ad aver mantenuto intatta la lingua, il rito bizantino, i costumi e la cultura.
Sicilia Palermo Santa Cristina Gela Sëndastina 926 Più piccola comunità albanese di Sicilia, mantiene la lingua albanese e si conservano alcuni abiti tradizionali. Il rito bizantino è decaduto
Sicilia Agrigento Sant’Angelo Muxaro Shënt’ Ëngjëlli Comunità estinta.
Sicilia Catania Biancavilla Callicari 24.150 Comunità estinta. Influenza albanese nel dialetto siciliano parlato; presenza di cognomi albanesi.
Sicilia Catania Bronte 19.116 Comunità estinta.
Sicilia Catania San Michele di Ganzaria 3.191 Comunità estinta.

La preparazione del cibo arbereshe fa parte di quelle pratiche del sé, che aiutano a tracciare delle barriere simboliche fra loro e gli Altri: il cibo come meccanismo rivelatore dell’identità etnica, culturale, sociale, ma anche come espressione di solidarietà e di condivisione familiare e amicizia tra gruppi.

Secondo l’antropologo Claude Lévi-Strauss, l’opposizione fondamentale, che precede e caratterizza tutte le altre relazioni alimentari, riguarda lo “stato” dell’alimento e si rappresenta per mezzo del cosiddetto “triangolo culinario”. A ogni vertice del triangolo si colloca uno dei tre “stati”: “il crudo”, che rappresenta l’originaria condizione di non trasformazione del cibo; “il cotto”, in quanto trasformazione culturale del crudo; “il putrido” come naturale alterazione sia del crudo che del cotto.

Triangolo culinario
Triangolo culinario

All’interno di questo Triangolo culinario, è possibile collocare dalla parte del Cotto, cibi come: la “dromesat”, una pasta fatta con grumi di farina, cucinati direttamente nei diversi sughi scelti per il condimento; le “shtridhelat”, tagliatelle di farina mista, cucinate con fagioli o con ceci; i “rrashkatjele Skanderberg” (rascatelli Scanderberg), conditi con salsa si pomodoro e ricotta stagionata.
Dalla parte del Crudo la “veze petul” ovvero i cardi selvatici con scarola e cime di capperi.
Dalla parte del Putrido, non perchè lo sia, ma –come già detto- in quanto “trasformazione naturale del crudo”, la “kandarate”, carne conservata sotto sale, la saucice, la supersat,, il kapekol, le frittula.

Fanno parte del cibo della festa le “petullat” o “krispelet” (soffici frittelle a forma di ciambella); le “kasolle megjize” (gustoso involtino farcito con la ricotta); i “kanarikuj” (grossi gnocchi impregnati di miele); la “nusëza”, un dolce che assume sembianze antropomorfe. Anche la nusëza è una rappresentazione del sé arbéreshè: cibo che segna l’identità.
La cucina arbereshe è tipica delle zone collinari e di montagna, che usa ingredienti genuini e freschi, coltivati biologicamente negli orti delle case, oppure cibi derivati dalla pastorizia. La lunga occupazione turca ha fornito alla cucina tradizionale albanese un largo uso di spezie orientali: una cucina semplice, quasi povera, ma dal sapore particolare ed indimenticabile.

La tradizioni gastronomiche, prevalentemente vegetariane, si tramandano gelosamente di generazione in generazione, fino ai giorni nostri: ad esempio, gli Arbëreshë distinguono nettamente tra erbe ad uso alimentare (liakra = “foglie”) e erbe non commestibili (bara = erbe), n una corrispondenza spaziale ordinatore di percorsi mentali e che dà luogo ad una classificazione simbolica.
La raccolta delle erbe avviene entro gli stessi spazi di quelle utilizzate per usi alimentari, ma ciò che sorprende è che per l’uso magico non emerge mai la classificazione dei luoghi di raccolta, nemmeno a seguito di precise richieste di chiarimento poste in proposito. Le risposte, in questo caso, sono assolutamente evasive e concordemente si precisa che le piante si raccolgono là dove si trovano. Ciò fa supporre che la concezione delle categorie spaziali si sposti esclusivamente sul luogo in cui si origina il male.

Ed ecco una raccolta di ricette con cui comporre un menu tipico arbereshe:

  • Melanzane ripiene (Mullunxhana tȅ mbluara)
  • Zuppa di verdure selvatiche (Bar i égër)
  • Fettuccine con baccalà e mollica di pane (Tumac shpie me bahalla e mulikatë)
  • Gnocchi di farina (Strangujët)
  • Briciole di pasta (Dromësat)
  • Gomitolo di pasta (Shëtridhlat)
  • Pasticcio di carne (Pastici)
  • Capretto (Kaciq)
  • Agnello cacio e uovo (Gjimaveja)
  • Cannoli (Canojët)
  • Cugliaccio (Kulac)
  • BuccellatI (Të Plotit)
  • Bocconotti (Bukonote)
  • Frittelle (Petullat)
  • Riso cotto in brodo di montone (Kabunì)

e quindi ju bëft mirë! che significa “Buon appetito!”

ZUPPA di verdure selvatiche (Bar i égër)

Le verdure selvatiche sono un patrimonio salutistico preziosissimo ad oggi dimenticato. Questa minestra prevede l’utilizzo di cicoria selvatica, papavero (lulëkuqe), cardo selvatico (rrëshjel), rapa selvatica (rrapista/llapsanë), achillea (kackalidhe), finocchio selvatico (mëraj i egir). Solo per citare alcune delle infinite proprietà di queste erbe, l’Achillea, ad esempio, si distingue per l’ottima capacità antiossidante, per l’attività di inibizione dell’ossidazione ad opera della Lipoperossidasi e per l’azione antibatterica.

La ricetta è assai semplice e può essere personalizzata a piacere purché alla base permanga il principio dell’utilizzo delle erbe selvatiche, che andranno fatte bollire per un tempo non inferiore a 10 minuti (dal bollore) affinché l’acqua ne estragga i preziosi principi e le fibre si ammorbidiscano. Una volta cotte si possono aggiungere formaggio, pomodoro, salsiccia o carne a piacimento, ma non scolate il brodo di cottura perché perdereste molti dei micronutrienti contenuti nelle verdure.

Servite sempre ben caldo, magari con qualche gustoso crostino di pane integrale!

Melanzane ripiene (Mullunxhana tȅ mbluara)

Lavare le melanzane tagliarle e metà togliendo la polpa che va fatta a pezzettini con l’aggiunta di sale che lascerete riposare per una mezz’ora circa, allo stesso modo farete con le bucce delle melanzane.

Unite alla polpa precedentemente strizzata il pane grattugiato, il formaggio, il pepe, la cipolla, le uova e impastate bene in modo da ottenere un impasto omogeneo.

Mettete il composto dentro le bucce delle melanzane cospargete di pomodori a pezzetti e fate cuocere in forno caldo.

FETTUCCINE CON BACCALA' E MOLLICA DI PANE (TUMAC SHPIE ME BAKALLA E MULIKATË)

Ingredienti per la pasta:
500 gr. di farina bianca, 250 gr. di farina di semola, 500 gr. di acqua, 1 uovo, sale q.b.

Ingredienti per il condimento:
500 gr. di baccalà, 1 cipolla fresca, 150 gr. di olio, 3 cucchiai di pepe rosso, 1 lt. di acqua, sale q.b.

Per la mollica di pane:
500 gr. di mollica di pane fresco, 3 cucchiai di olio 1 spicchio d’aglio, 1 cucchiaio di pepe rosso.

Preparazione della pasta

Versare a fontana la farina sulla spianatoia, aggiunger l’uovo, il sale e poco alla volta l’acqua ed impastare fino a quando risulta morbido e omogeneo.

Fate riposare l’impasto per circa mezz’ora coperto con un piatto. Lavorate di nuovo l’impasto con le mani e poi stendetelo con l’aiuto del matterello, avvolgete la sfoglia nel matterello, sfilatela e tagliatela a fettuccine di 1 cm circa.

Preparazione del condimento

Soffriggete l’olio con la cipolla tagliata finemente, aggiungere il pepe rosso con l’acqua e girarlo per non formare grumi e aggiungere il baccalà tagliato a pezzi. 
Farlo cucinare per circa mezz’ora.

Preparazione della mollica di pane

Far soffriggere la mollica di pane con lo spicchio d’aglio e l’olio girando spesso, alla fine aggiungere 1 cucchiaio di pepe rosso e continuate a girare, finché il pane diventa rosso come il pepe.
Cuocete le fettuccine in abbondante acqua salata facendo bollire per 4-5 minuti girando di tanto in tanto: a cottura ultimata aggiungete un po’ d’acqua fredda e subito scolare versate in un piatto le fettuccine il baccalà e la mollica di pane e servite subito.

Gnocchi di farina (Strangujët)

Sono fatti a mano, conditi con pomodoro (lëng) e molto basilico, abitualmente benedetti. Tradizionalmente questo piatto era consumato dalle famiglie sedute attorno a uno spianatoio di legno (zbrilla), il 14 settembre, giorno in cui si commemora l’esaltazione della Santa Croce, dove in tutte le chiese si svolge una particolare cerimonia religiosa davanti a un piccolo altare su cui viene posta una croce attorno alla quale sono sistemati dei rametti di basilico che alla fine della cerimonia sono distribuiti ai fedeli.

Ingredienti: Farina di grano duro e acqua

Si impasta la farina (la quantità dipende da quante porzioni si vogliono ottenere) con l’acqua fino ad ottenere un impasto ben duro, quindi lo si ritaglia a strisce e poi in piccoli tocchetti quadrati; con il pollice poi si preme sui tocchetti di pasta facendo scorrere il pollice verso l’esterno per ottenere quella tipica forma a conchiglia che hanno gli gnocchi.

A questo punto si mettono ad asciugare anche per poche ore, quindi si possono mangiare conditi con sugo di pomodoro, basilico e formaggio. Questo piatto tradizionalmente a Piana veniva consumato attorno ad uno spianatoio di legno il giorno della Santa Croce – 14 settembre.

Briciole di pasta (Dromësat)

Cioè grumi di farina da cuocere direttamente nel sugo di pomodoro. In alcune case, si preparano ancora secondo un antico rito: come accennato, essendo molto religiosi, si inizia a battezzare la farina, poi si benedice la pasta e così via per finire celebrando il matrimonio con un sugo semplice di pomodoro e spezie, quali alloro e origano, in cui la pasta cuoce.

Disporre 500 gr di farina “00” sulla spianatoia livellandola a spessore, alta circa due dita. Bagnare tre rametti di origano in una ciotolina d’acqua e ‘benedire’ energicamente la farina, riversandovi l’acqua a pioggia.

Mescolate con la spatola la farina così inumidita, con rapide rotazioni circolari e riversatela nel setaccio. Setacciare la farina per separare i grumi di pasta, lasciando cadere nella spianatoia la farina residua. Ripetere l’operazione, fino a rendere tutta la farina a grumi (dromësat).

Intanto in un padellino, soffriggere in olio evo 00 gr di salsiccia già sbriciolata, per pochi minuti, fino a dorarla. Versare in una casseruola 400 gr di salsa di pomodoro, prezzemolo tritato, due spicchi di aglio, una cipolla, un pizzico di pepe e sale quanto basta, facendo cuocere il tutto per circa venti/trenta minuti. 

cottura ultimata, allungare il sugo con un po’ di acqua fino a renderlo brodoso.
Portare a ebollizione il sugo; successivamente moderare la fiamma e versarvi i grumi di pasta, mescolando rapidamente per pochi minuti, fino a quando non si ottiene un composto ben amalgamato.
Impiattare la dromësat nelle ciotole di terracotta unendo la salsiccia sbriciolata, il pecorino e alcune foglioline di basilico.

Gomitolo di pasta (Shëtridhlat)

E’ una pasta fresca la cui origine risale al 1500 quando alcuni profughi dell’Albania.

Si tratta di una preparazione estremamente affascinante, che coinvolge quasi sempre un gruppo di donne, per un momento davvero corale. Questa pasta prevede un’abilità e una manualità uniche, tramandate da generazioni, che consistono nel continuare a lavorare a mano un impasto senza che si spezzi: si forma un cerchio nell’impasto come se fosse un grosso biscotto e si va avanti ad assottigliare il cerchio con entrambe le mani fino a produrre un filo lungo molto sottile che non si deve spezzare. Per non farlo spezzare si bagnano le mani con acqua e olio e poi, con l’aiuto della farina, si appoggia il lungo e sottile filo sulla mano come se fosse un gomitolo con un movimento rotatorio.

Girando continuamente, il filo diventa ancora più sottile e lungo finchè le shëtridhlë non saranno pronte per essere spezzate sul tavolo prima della cottura in acqua bollente. Una volta pronte, vengono solitamente condite con legumi quali ceci e fagioli, oppure verdure.

Impastate la farina (un pugno a Persona) con acqua tiepida, aggiungendo un pochino di olio e sale. Fate l’impasto e lasciatelo riposare in frigo per circa 30 minuti.

Tolto dal frigo, lavorate ancora un po’ l’impasto e create una pagnotta; con il coltello fate un taglio centrale e formate un cerchio come se fosse un grosso biscotto. Lavorando con tutte e due le mani, assottigliate il cerchio fino a produrre un filo lungo molto sottile che non si deve spezzare. Per riuscirci , bagnate ogni tanto le mani con acqua e olio.
Con l’aiuto della farina, appoggiate il lungo e sottile filo sulla mano a mò di gomitolo.

Usando tutte e due le mani, stringete i fili appoggiati sulla mano con un movimento rotatorio. Girando continuamente, il filo diventa sempre più sottile e lungo, quindi rigirate sulla mano ancora una volta, sempre come un gomitolo.
Quando il filo è abbastanza sottile, le shëtridhlë sono pronte per essere buttate in acqua.

Per il sugo

Fate soffriggere due spicchi di aglio e aggiungete 250 gr di fagioli poverelli (quelli piccolissimi tondi), cucinati nella pignata, aggiungendo un po’ di polvere di pepe rosso non piccante.
Dopo poco aggiungete 250 gr di passata di pomodoro fresco, un pizzico di origano e un peperone verde; fate cuocere per 20 minuti.
Intanto a parte mettete l’acqua per la pasta in una pentola grande e larga, aggiungete il sale e qualche goccia di olio e quando bolle spezzate la matassa delle shëtridhle e calate nell’acqua. Quando saranno venute a galla due volte (si rigirano), colate conservando un po’ di acqua della pasta da aggiungere al sugo coi fagioli e rigirate un po’ di volte.

Coprite con il coperchio la pentola e fate riposare qualche minuto: “la pasta si deve sposare col sugo!”, dicono. Molto importante è conservare ancora l’acqua con l’amido in modo da aggiungerla alla pasta se si asciuga troppo, perché va servita un po’ brodosa.
Infine, se desiderate, potete aggiungere piccante a volontà.

Esiste anche una variante di condimento solo con i fagioli e senza pomodoro: una volta cotte le shëtridhlat, versate sulla pasta i fagioli e subito dopo un soffritto già pronto di olio, aglio, peperoni cruschi (quelli rossi asciugati al sole) fatti a piccoli pezzi con aggiunta di polvere di peperone rosso dolce. Amalgamate poi tutto con l’aiuto dell’acqua di cottura e servite fumanti. Anche in questo caso, chi desidera può aggiungere peperoncino piccante.

Pasticcio di carne (Pastici)

E’ un timballo di carne cotto al forno e preparato racchiudendo dentro una sfoglia di pasta non lievitata, in una teglia da forno, la carne di agnello disossata, aromatizzata con aglio, alloro, rosmarino, eventualmente pepe nero e condita con poco olio, o, meglio, strutto, e sale.

Da secondo, prima dell’invasione della fettina di vitello, fungevano spesso piattini verdura e ortaggi fritti con aggiunta di altri ingredienti: particolarmente apprezzati sono ancora oggi i peperoni fritti con le uova e la salsiccia a tocchetti e quelli fritti con le olive dolci e gli asparagi selvatici fritti con le uova, ma anche la bieta in padella con mollica di pane, le patate a fette rotonde in padella, le melanzane in padella con peperoni e patate, le zucchine stufate con uova e formaggio.

Piatti unici vengono invece considerati gli ortaggi ripieni, la cui preparazione richiede molto tempo e pazienza: melanzane, zucchine, peperoni e carciofi si riempiono della loro mollica tagliata sottile, ripassata in padella, mescolata con pane grattugiato, formaggio pecorino o parmigiano, uova, eventualmente carne tritata, sale ed aromi.

CAPRETTO IN UMIDO (KACIQ A’LA ÇIVITJOTA)

Ingredienti per la pasta:
kg 1 di capretto lattante, 500 gr di pomodori, 3 peperoni krushki – 2 peperoncini piccanti, 50 gr di olio extravergine di oliva, 1 bicchiere di vino pollino rosso, 1 spicchio d’aglio, 3 foglie di alloro, ginepro, origano, sale

Preparazione:
Lavate e tagliate a pezzetti piuttosto grossi il capretto e fatelo asciugare dall’acqua in una padella di rame.
Mettete uno spicchio d’aglio a rosolare e uniteci il capretto.
Spruzzate con il vino rosso, fate sfumare coprendo la padella e aggiungete i mazzolini degli altri odori.

AGNELLO Cacio e uovo (gjimaveJA)

Piatto tipico nella tradizione carnevalesca.

Ingredienti per 4 persone:
1 kg. carne agnello (qengër) a pezzi, olio extravergine di oliva, 4 uova, brodo vegetale, prezzemolo, parmigiano e pecorino grattugiati, pepe macinato, uno spicchio d’aglio, sale q.b.

Far stufare la carne di agnello con un po’ d’olio, aglio e un pizzico di sale. Quando la carne è rosolata, aggiungere il brodo (in alcune varianti “contaminate” si può sostituire il brodo con pomodoro fresco o di conserva, vedi foto) e continuare fino a che la carne è ben cotta e l’acqua aggiunta rappresa.

In una terrina sbattere 4 uova (la ricetta tradizionale esige un uovo a testa, ma nel caso il piatto venga servito come secondo è preferibile utilizzare un uovo ogni due persone) con un po’ di prezzemolo ed il pepe macinato, un pizzico di sale e il formaggio grattugiato.

Ricavare nella casseruola degli spazi dove versare, a cucchiaiate, il composto di uova e formaggio; girare con delicatezza.
Quando le uova si gonfiano, la gjimaveja è pronta per essere servita.

Cannoli (Canojët)

Per la cialda (scorza): farina per dolci gr.200, zucchero 2 cucchiaini, sugna gr.20, marsala 2 cucchiai, cacao 2 cucchiaini, un pizzico di sale.

Per il ripieno: ricotta fresca di pecora kg.1, zucchero gr.600, vaniglia 1 bustina, scaglie di cioccolato fondente, scorza di arancia candita gr.100

Versate su un tavolo, preferibilmente di marmo, la farina, quindi mescolatevi la sugna, il marsala, lo zucchero e un pizzico di sale e impastate bene, alla fine otterrete una pasta molle e compatta.

Spianatela col mattarello a foglie sottilissime e ricavatene, con uno stampo rotondo o utilizzando a questo scopo un piattino da caffè, dei cerchi che avvolgerete attorno ad un bastoncino di legno di forma cilindrica, con un diametro non superiore ai due centimetri.

Saldate i lembi della pasta con una goccia d’acqua e passate a friggere in un tegamino in olio bollente (o ancor meglio nella sugna).

Mettete quindi a scolare i cilindri in una carta assorbente e attendete che siano freddi prima di togliere con molta cura il bastoncino che ne mantiene la forma. In fine riempite le cialde di cannolo con la crema di ricotta (che si ottiene mescolando lo zucchero alla ricotta fresca e, dopo averla passata al setaccio, anche le scaglie di cioccolato) e guarnite con fettine di arancia candita.

Cugliaccio (Kulac)

E’ un dolce tipico della tradizione gastronomica arbëreshè. Sin dal XVI secolo, la preparazione di questo pane è legata alle cerimonie nuziali e alle festività pasquali, ed è connotata da un forte simbolismo religioso, che agisce sulla costruzione e sul mantenimento dell’etnicità arbëreshè.

Ricco di uova, viene preparato con ingredienti semplici (farina di grano tenero, semola rimacinata, olio, strutto, lievito naturale, lievito di birra e finocchietto selvatico), per esaltare la vita e la Resurrezione, richiamando la distribuzione tradizionale delle uova sode colorate, durante la domenica di Pasqua. Nel Medioevo, infatti, era vietato mangiare le uova, cibo di origine animale, durante le severissime imposizioni di digiuno della Quaresima. Le uova sfornate dalle galline in quelle sei settimane, dovevano per forza essere smaltite rapidamente, perciò venivano benedette in chiesa durante la messa della domenica di Pasqua e poi donate, rassodate, ad amici e parenti, come augurio di fecondità.

In occasione delle feste nuziali, il Kulac viene preparato e confezionato dai parenti dello sposo, il giovedì prima del matrimonio, che a San Costantino Albanese, viene officiato con il Rito greco-bizantino. In questo caso ha un impasto circolare, con un intreccio che forma quattro braccia, che vuole rappresentare l’indissolubilità del matrimonio.

L’impasto circolare, con un intreccio che forma quattro braccia, vuole rappresentare un matrimonio indissolubile ed è decorato con simboli in pasta di sale: un nido, due uccelli e due serpenti. Il nido, al centro del dolce, rappresenta la nuova famiglia e la sua casa; le uova in esso contenute sono sempre dispari, in segno di buon augurio e fertilità. I due uccelli, sulla parte alta del nido, lo difendono e rappresentano la nuova coppia ed i genitori degli sposi attenti a riparare la casa dalle avversità.
Gli uccelli inizialmente rappresentano i suoceri ed i serpenti raffigurano gli sposi che guardano dispiaciuti i genitori lasciati; in un secondo momento, gli uccelli si trasformano nella nuova coppia e i serpenti rappresentano il male.
Secondo la tradizione per ogni cerimonia si devono preparare due Kulaç, uno decorato e l’altro semplice.

Composizione finale del cugliaccio matrimoniale

Secondo la tradizione, per ogni cerimonia si devono preparare due “cugliaccio”, uno decorato e l’altro semplice. Quello semplice veniva messo sotto l’altro, poiché durante la messa, quello decorato veniva offerto dal sacerdote, dopo essere stato bagnato nel vino, e dato prima alla sposa e poi allo sposo, in segno di reciproca appartenenza.

L’intreccio simbolico del cugliaccio

Rappresentazione iconica e visuale del rito matrimoniale che si sta consumando; del passaggio dei due giovani al nuovo status sociale; della contrapposizione ed alleanza delle due famiglie; dell’indennizzo pagato dalla famiglia dello sposo, attraverso l’offerta del dono risarcitorio alla famiglia della sposa. Molto probabilmente, infatti, gli sposi seguiranno la norma virilocale e andranno a risiedere presso i parenti di lui.
Ma soprattutto il cugliaccio è la rappresentazione del mutamento all’interno della vita dei due giovani, raffigurati all’inizio come “serpenti che guardano dispiaciuti gli uccelli, cioè i genitori lasciati”… In seguito, i due giovani, dischiuse le uova e usciti da nido, diventano essi stessi “uccelli” capaci di fronteggiare i serpenti, cioè il male, che l’ingerenza dei parenti, all’interno del proprio menage familiare, può rappresentare.

In una ciotola o sulla spianatoia formare la classica fontana con 500gr farina di semola rimacinata Senatore Cappelli e 500gr farina 00 rinforzata (io ho utilizzato la Rieper gialla), al centro fare cadere gradualmente l’acqua in cui in 250 gr avrete sciolto 200 gr di lievito madre rinfrescato precedentemente per tre volte e nei restanti 50 gr di acqua, 4 gr di lievito di birra, aggiungere le 4 uova. Dare una rapida impastata, quindi, nel momento in cui il tutto è ancora umido, aggiungere il 20 gr di sale, un’altra rapida impastata ed aggiungere 50 gr di strutto e 50 gr di olio ed infine 30 gr di liquore all’anice.

Impastare a mano per almeno 20 minuti o comunque fino a quando l’impasto non risulterà essere liscio ed elastico. Mettere in un contenitore, coprire con carta velina e, dopo un’ora di tempo a temperatura ambiente, porre il tutto in frigo per 9 ore circa, almeno a me c’è voluto questo tempo affinché arrivasse alla giusta lievitazione. Tirare fuori dal frigo il vostro impasto lievitato, riportarlo a temperatura ambiente facendo trascorrere circa un’ora e mezzo, ed iniziare a formare.

Dividere l’impasto in 4 parti, due da 700gr e due da 200gr. Con ognuna formare dei cilindri; con la restante pasta formare le decorazioni (io non ho utilizzato la pasta di sale). Intrecciare i cilindri formati da maggior quantità di pasta dando vita ad una coroncina e poi procedere come vi ho mostrato nelle foto dell’intreccio posta sopra. Divertitevi a formare, serpenti, uccellini e nido e poi assemblare il tutto come nelle foto.

Porre il pane a lievitare su carta forno fino al raddoppio, coperto da un panno umido e strizzatissimo. Questa seconda lievitazione a me è durata circa due ore e mezzo, tre ore. Spennellare con un uovo ed infornare mettendo direttamente la carta forno sulla leccarda del forno capovolta, in forno preriscaldato a 200°, statico sopra e sotto per circa tre quarti d’ora/ 1 ora.

Mantenere a 200° per dieci minuti e 180° per il restante tempo. Controllare la cottura, ogni forno è differente dall’altro, se dovesse scurire troppo proteggere con carta stagnola, soprattutto le decorazioni. Ne uscirà un pane da circa due kg, dall’alveolatura piuttosto compatta, ma soffice, che io ritengo essere ottimo come colazione.
Dedico con tanto affetto questo post a tutti voi, miei cari lettori/lettrici che siete in procinto di sposarvi, affinchè il vostro matrimonio possa essere felice e indissolubile.

BuccellatI (Të Plotit)

Nel periodo natalizio per le vie del paese dalle case si sprigiona questo meraviglioso profumo dolce.

Per preparare questa prelibatezza servono: 1 kg di farina di grano tenero 00, 350 gr. di sugna (strutto) 400 gr. di zucchero 4 uova 1 bustina di lievito per dolci un po’ di ammoniaca una bustina di vanillina un po’ di scorza grattugiata di arancia o limone 1 bicchiere di latte. Impastare e poi fare le forme che si vuole mediante losanghe e riempirle con impasto di fichi secchi tritati, di zucca candita, mandorle, noci, cioccolato a pezzetti.

Spennellare i dolci con l’uovo, infornarli e appena sfornati cospargerli con lo zucchero a velo

Bocconotti (Bukonote)

In una terrina versate 400 gr di zucchero, i kg di farina e 30 gr di strutto, aggiungete sei uova e un pizzico di sale, amalgamate fino ad ottenere un composto omogeneo, e fate una sfoglia con il matterello. Ungete con lo strutto dei piccoli stampi rotondi, foderateli con la sfoglia e riempite di marmellata di frutta.

Richiudete con la sfoglia creando due piccoli buchi con l’ago sulla superficie. Infornate a forno caldo fino a quando non si crea una piccola crosticina dorata.

Frittelle (Petullat)

Pulite un cavolo e tagliatelo a striscioline sottili, quindi scaldate poco olio in una padella e aggiungete il cavolo e fatelo saltare per qualche minuto, dovrà intenerirsi ma rimanere consistente salate e pepate a piacere.

Potete anche due uova sode grattugiate finemente.
Poi in un kg di farina setacciata aggiungi un po’ alla volta due uova, un cucchiaino di sale e uno di zucchero, 2 tazze di yogurt e olio.

Impastate e lavoratelo con le mani fino ad ottenere un composto omogeneo. Ottenuto un bell’impasto liscio, ricavate delle sfere di 50 gr circa, stendetele in un ripiano leggermente infarinato e disponete il ripieno di cavolo in piccoli mucchietti sulla pasta. 
Alzate la pasta da un lato e coprite il ripieno sovrapponendola sull’altro lato formando così delle forme a mezzaluna. Fate pressione con le mani e/o con i lembi di una forchetta sul lato da incollare.
Scaldate abbondante olio per friggere in una larga padella dai bordi alti e friggete le frittelle poco alla volta girandole su i due lati finché risultano ben dorate e gonfie.

Scolatele e appoggiatele su un vassoio foderato con carta assorbente, coprendole con un panno in modo da ammorbidirle.

Riso cotto in brodo di montone (kabunì)

Mettere 50 gr di uvetta a mollo in acqua tiepida (o nel rum, per un sapore più deciso).

Scaldare 600 ml di brodo di montone e lasciarlo sobbollire con dentro una stecca di cannella, i chiodi di garofano e la bacca di vaniglia.
Sciogliere 50 g di burro e tostarvi leggermente 70 gr di riso, poi procedere come un normale risotto, aggiungendo il brodo poco per volta e mescolando fino a cottura quasi completa: deve restare un po’ al dente e piuttosto asciutto.

Lasciare intiepidire, poi aggiungere l’uvetta ben strizzata, 30 gr di mandorle tritate e 50 gr di zucchero.

Compattate l’impasto in uno stampo e lasciate raffreddare in frigo per 3/4 ore.
Sformate, tagliate a quadretti e guarnite con zucchero a velo, uvetta e mandorle intere.
Io li ho preparati direttamente in uno stampo di silicone, già porzionati.