La Sicilia era popolata dai Sicani, dai Siculi o Siceli, dagli Elimi – come razze indigene – allorché le sue coste cominciarono a essere visitate dai Fenici, prima dell’VIII sec. a.C., che vi stabilirono delle colonie. I luoghi scelti erano lungo le coste, di preferenza sui promontori o sulle piccole isole vicine alla spiaggia, e costituivano dei punti di mercato (i primi centri commerciali), finchè arrivarono i Greci con i loro insediamenti in numero sempre più crescente.
Conseguenza ne fu che i Fenici si ritirarono poco a poco nella parte nord-ovest dell’isola ove conservarono tre durevoli siti: Mtv o Motya ora S. Pantaleo, Ziz (fiore) ora Palermo, Solois ora Solunto. Lo storico Tucidide evidenziò che i Fenici, all’arrivo dei Greci, abbandonarono i luoghi di propria volontà e non perché furono cacciati.
La colonizzazione greca arrivò all’improvviso molto decisa e penetrante ed in due secoli trasformò l’isola nel centro più dinamico dell’antica civiltà mediterranea. Le prime colonie greche furono fondate dai Calcidesi, guidate da Teocle, a partire dal 735 a.C. (Naxos, omonima dell’isola cicladica) e l’anno dopo i Corinzi fondarono Siracusa.
In effetti, la rada che da Capo Taormina (Taurus) porta a Capo Schisò era il naturale scalo delle navi che le correnti portavano da Capo Spartivento. Probabilmente le prime navi greche furono trascinate dai venti in quel tratto di mare. Dopo qualche anno furono fondate anche Leontini (728 a.C.), Catana (727), Megara e Megara Hyblaea.
Gela, prima colonia sulla costa meridionale, fu fondata nel 689 a.C., mentre approssimativamente Acrae (ora Palazzolo Acreide) nel 663, Selinus (Selinunte) nel 628, Camarina nel 598, Agrigento nel 580. Non si hanno date, neanche probabili, di Zancle (Messina) e di Himera (presso l’odierna Termini Imerese).
Nel VI secolo a.C. le città più potenti furono Agrigento e Gela, che da governi oligarchici passarono ben presto nelle mani di tiranni come Cleandro o il fratello Ippocrate. Gelone riuscì a impadronirsi nel 485 a.C. anche di Siracusa, che con lui divenne e rimase per molti secoli la prima città della Sicilia.
Cartagine fu fondata nell’attuale Tunisia dai Fenici, pare, attorno all’814 a.C. come colonia di Tiro. L’inizio dell’espansione cartaginese in Italia – sotto l’ottica non puramente commerciale ma territoriale e quindi militare – si può far risalire alla spedizione di Malco in Sicilia, attorno al 550 a.C. Fino ad allora infatti,Cartagine aveva tratto le sue ricchezze dal commercio nel mondo Mediterraneo e dalla presenza della flotta a protezione delle rotte commerciali dai pirati che da sempre infestavano le acque del mare interno e che, in realtà, erano spesso emissioni dei governi delle altre città e popoli costieri.
I cartaginesi fondarono nella parte occidentale della Sicilia le città di Panormus (la Palermo di oggi), Solois e Motya
Una volta stabilite le principali basi commerciali, quindi, Cartagine si trovò costretta a controllare il traffico marittimo proveniente dall’Egeo e dallo Ionio per evitare che, ad esempio, mercanti greci potessero entrare o aumentare la concorrenza nel commercio dell’argento e dello stagno delle miniere spagnole britanniche. La marineria etrusca si era ritagliata una nicchia commerciale nel mar Tirreno ed operava prevalentemente sulle coste occidentali italiane ed in Corsica ma non in regime di monopolio.
L’oggetto dei loro traffici comprendeva i prodotti delle miniere di argento e di piombo, la manifattura di letti e la biancheria, un’industria del legno, la produzione di ceramica, gioielli e vetri semplici e di poco valore e infine l’esportazione di animali selvaggi (provenienti dalle giungle africane), frutta, noci, avorio e oro.
I porti erano in comunicazione l’un l’altro, ed avevano un ingresso comune dal mare, profondo venti metri, che poteva essere chiuso con catene di ferro. Il primo porto era per navi mercantili e quì erano riuniti tutti i tipi di attrezzi navali. All’interno del secondo porto c’era un’isola che, insieme al porto stesso, era racchiuso da alti moli. Questi erano tutti cantieri navali che avevano la capacità di accogliere fino a 220 imbarcazioni. Sopra essi c’erano i magazzini per i loro attrezzi ed equipaggiamento. Due colonne ioniche si ergevano di fronte ad ogni bacino, dando l’apparenza di un portico continuo sia al porto che all’isola. Sull’isola era costruito l’ammiragliato, da cui il trombettiere dava i segnali, l’araldo trasmetteva gli ordini, e l’ammiraglio stesso sorvegliava tutto. L’isola giaceva vicino all’entrata del porto e si innalzava per una considerevole altezza, così che l’ammiraglio poteva osservare che cosa stava accadendo sul mare, mentre quelli che si si avvicinavano dall’acqua non potevano avere una chiara visione di quanto accadeva dentro. Ne i mercanti che giungevano potevano vedere i bacini, perchè un doppio muro li circondava, e c’erano dei cancelli da cui le navi mercantili potevano passare dal primo porto alla città, senza attraversare i cantieri.
“Le due lagune nei pressi di Cartagine, ancora oggi ben riconoscibili, sembrano corrispondere alla descrizione di Appiano; e gli scavi intrapresi nel quadro della campagna internazionale per la salvaguardia di Cartagine consentono ormai di respingere qualsiasi contestazione sulla storicità e sull’identificazione dei porti punici della città per quanto riguarda le due lagune
In greco il nome di questo impianto artificiale era Cothon e lo ritroviamo anche in altre città fenicie, come a Mozia in Sicilia, a Pantelleria, e nell’Africa del Nord, a Utica, a Thapsus, ad Hadrumetum, a Mehedia.
Nel 480, dopo tre anni di preparazione e quasi sicuramente di concerto con i persiani (che attaccarono Atene proprio nello stesso periodo), i Cartaginesi allestirono il più grande esercito della loro storia, arruolando truppe mercenarie africane ed iberiche ed alleandosi alle popolazioni sicule native. Il loro obiettivo era quello di cacciare una volta per tutte i greci dalla Sicilia (di cui essi occupavano la punta occidentale e che consideravano una loro isola); un’operazione che sarebbe passata alla storia come prima campagna siciliana (o prima guerra greco-punica).
La tradizione greca parla di un esercito di 300.000 uomini al comando del generale Amilcare Magone, ma tale stima è sicuramente esagerata: probabilmente l’esercito cartaginese era di circa 30.000 uomini, il che sarebbe stato comunque superiore a quello delle polis greche siciliane, stimato di 24.000 uomini e 2000 cavalieri. La consistenza della flotta invece sarebbe stata più o meno la stessa fra Cartaginesi e greci, attorno alle 200 navi a testa. A fronteggiare i Cartaginesi erano principalmente Siracusa ed Agrigento, le due polis più importanti della Sicilia e della Magna Grecia in generale; basti pensare che nel mondo greco la flotta siracusana era seconda solo a quella di Atene. A quel tempo inoltre, entrambe le città erano governate da tiranni, e ambedue ottimi generali: Gelone a Siracusa e Terone ad Agrigento.
La fortuna non arrise ai Cartaginesi sin dal principio: nella navigazione verso al Sicilia Amilcare perse tutta la cavalleria per le avverse condizioni del mare. Sbarcato a Palermo, portò l’esercito nei pressi di Imera, dove si svolse la prima ed ultima battaglia del conflitto. Le forze coalizzate greche riportarono infatti una vittoria schiacciante; lo stesso Amilcare morì in combattimento (o si suicidò poco dopo). I vincitori imposero ai vinti il pagamento delle spese di guerra e la clausola di abbandonare l’uso punico di sacrificare bambini agli déi. Cartagine risultò gravemente indebolita dalla sconfitta (distruzione della flotta e dell’esercito mercenario) e il vecchio governo, allora nelle mani della famiglia dei Magone, fu sostituito dalla Repubblica Cartaginese: un regime aristocratico che durò fino alla fine di Cartagine. Per i successivi settant’anni i Cartaginesi non inviarono ulteriori spedizioni militari in Sicilia.
Il fratello Jerone, che gli succedette, incrementò la potenza raggiunta ed ebbe una grande e meritata reputazione in tutto il mondo greco per aver liberato i Cumani e sconfitto i Cartaginesi. Alla morte di Jerone (467 a.C.) il potere tirannico cominciò a perdere forza, anche per effetto di una rivolta generale di tutte le città della Sicilia e di violente discordie intestine. Ciò portò a mezzo secolo di tranquillità e prosperità e al massimo grado di ricchezza e potenza di tutte le città greche di Sicilia.
Segesta, minacciata da Selinunte, chiese aiuto ai Cartaginesi che, guidati da Annibale, ne approfittarono per conquistare l’isola intera. I Cartaginesi misero a ferro e fuoco prima Selinunte e poi Himera, vendicando pure la sconfitta e la morte di Amilcare avvenuta in quest’ultima città.
Mentre ritornava, con alti e bassi mutamenti di fortuna e di potenza, Siracusa sotto il potere di un despota (Dionisio), i Cartaginesi divennero padroni assoluti di mezza Sicilia (Selinunte, Himera, Agrigento) tenendo sotto controllo anche Gela e Camarina.
Pian piano Dionisio programmò una dura lotta per espellere i Cartaginesi dalla Sicilia e conquistò prima Naxos, Catania e Leontini rivolgendosi, quindi, con rapidi successi, contro quasi tutte le città sotto dominio cartaginese e conquistando nel 397 a.C. anche Motya, estremo baluardo occidentale.
L’anno dopo, però, un grosso esercito cartaginese riconquistò Motya e si spinse fino a Messina che distrusse completamente. Dopo alterne vicende fu firmato nel 383 a.C. un trattato tra Greci e Cartaginesi che determinò nel fiume Halycos (ora Platani) il confine tra essi. Anche dopo continuarono le tirannie e le guerre tra Cartaginesi e Greci.
La prima guerra punica (264 a.C. – 241 a.C.) fu principalmente una guerra navale. Le richieste di soccorso dei Mamertini contro Siracusa raggiunsero Roma e Cartagine. Roma, impegnata nella pacificazione del territorio (sannita) e nell’inizio di espansione nella Pianura Padana era riluttante a impegnarsi in Sicilia. Cartagine inviò subito una squadra navale. La conquista di Messina gettava segnali favorevoli nella secolare lotta con Siracusa; Cartagine poneva finalmente piede anche nel settore orientale dell’isola. Probabilmente vedere Cartagine a poche miglia dalle coste del Bruttium appena conquistato dovette creare qualche apprensione nel Senato romano che acconsentì a inviare soccorsi a Messina. Questo andava contro il trattato del (300 a.C.) che vietava gli interventi di Roma in Sicilia. Cartagine dichiarò guerra. Visto il pericolo, si alleò con la sua nemica storica, Siracusa, contro Roma.
All’inizio della guerra Roma non aveva nessuna esperienza di guerra navale e mancava della tecnologia navale; quindi dovette costruire una flotta basandosi sulle triremi e quinqueremi cartaginesi catturate. Per compensare la mancanza di esperienza in battaglie con le navi, Roma equipaggiò le sue con uno speciale congegno d’abbordaggio: il corvo: che agganciava la nave nemica e permetteva alla fanteria, trasportata, di combattere come sapeva fare.
La seconda guerra punica (218 a.C. – 202 a.C.) consistette essenzialmente in una serie di battaglie terrestri. Spiccano le figure di Annibale e Publio Cornelio Scipione detto successivamente, per le vittorie avute in Africa, “l’Africano”. Viene comunemente ricordata per la vittoria sui Romani conseguita da Annibale con i suoi 37 elefanti a Canne, in Puglia e per la conclusiva vittoria sui Cartaginesi conseguita da Scipione “l’africano” su Annibale (rientrato in Africa dopo 34 anni di assenza) a Zama, a seguito della quale fu imposto a Cartagine il divieto persino all’autodifesa senza il consenso di Roma.
A seguito di una occupazione romana di un centro numida (all’interno dell’attuale Tunisia) e della conseguente occupazione di una città cartaginese da parte dei Numidi, Cartagine, rompendo i patti, apprestò un esercito di 50.000 uomini cercando di riconquistare Oroscopa ma fu sconfitta. Il rischio per Roma era che Cartagine, troppo indebolita, cadesse preda della Numidia: si sarebbe formato uno stato ricco, esteso dall’Atlantico all’Egitto e militarmente forte. La rottura dei patti fornì Roma di un pretesto perfetto per poter intervenire e dichiarò guerra all’eterna rivale. La terza guerra punica durò dal 149 a.C. al 146 a.C.: Cartagine, si difese strenuamente dall’assedio, fino alla capitolazione, dopo la quale i soldati Romani saccheggiarono e rasero al suolo col fuoco la città, abbattendo perfino le mura e distruggendo il porto e gettando perfino del sale sulla terra per evitare la coltivazione dei campi e renderli ancora più aridi.
Le usanze della famiglia punica erano estremamente semplici: tra gli svaghi erano compresi i bagni termali, la pesca e la caccia.
Il vanto dell’industria cartaginese rimane, tuttavia, l’industria della porpora per la tintura indelebile delle stoffe di lino o di lana, con le seguente modalità di lavorazione: si raccoglievano i molluschi del genere “trunculus” e “murx brandaris”, dai quali si estraeva la carne del mantello della conchiglia (che racchiude un corpo granuloso di forma bislunga); successivamente, il prodotto veniva spremuto e la poltiglia ottenuta, mescolata col sa1e o semplicemente con acqua marina, veniva lasciata stare al Sole per tre giorni, perchè se ne separasse il succo, che poi veniva riscaldato in acqua per 10 giorni in vasi di piombo, sopra un fuoco lento, e chiarificato con il mestolo, schiumandolo sino a quando il liquido si fosse ridotto alla metà di quello iniziale. Infine, si immergevano i panni di lino o di lana che, dopo estratti. si esponevano alla luce intensa del sole. Solo allora si sviluppavano i colori che, essendo stati prodotti dalla luce, non svanivano mai. Il costo della tintura di porpora era elevatissimo: cosa ben comprensibile se si pensa che occorrevano circa 12.000 conchiglie per estrarre appena un paio di grammi di colore.
I Cartaginesi si nutrivano di verdure (cavolo, piselli, carciofi), di cereali e di olio d’oliva e, come i Semiti, non mangiavano la carne di maiale, preferendo in alternativa la carne di cane.
Fra le preparazioni più famose si hanno il famoso “cous cous”, la “pula punica” (così chiamato dal romano Catone, noto oggi con il nome di “macco”), il “garo” o “garum”, una salsa pregiata punica, estratta dagli intestini e dalla coda di diverse specie di pesci, molto utilizzata dai romani dell’epoca: Plinio (XXX,44) dice che il “garo” si faceva da un piccolo pesce, macerato nel sale, stemperato e spremuto. In seguito si usava prepararlo con lo sgombro.
La tradizione è giunta fino a nostri giorni, seppur semplificata, coll’odierno nome di colatura di alici, che si fa così:
Per bere a lungo senza essere portati all’ebbrezza, si soleva, prima di mettere mano alle anfore vinarie, mangiare un poco di cavolo crudo, nella convinzione che tale ortaggio avesse virtù di impedire i pericolosi effetti del vino (Ateneo di Naucrati, Deipnosofisti, II, 26).
Il “vino passito” fu una loro invenzione. Magone descrive la ricetta del “passum”, il passito: si raccoglievano i primi grappoli maturi, avendo cura di eliminare quelli ammuffiti o guasti, poi si esponevano al sole su una canna, curando di proteggerli dalla rugiada, coprendoli durante le ore della notte. Quando i grappoli diventavano secchi (uva passa) si staccavano i grani in una giara, ricoprendoli di mosto. Dopo sei giorni si spremevano e si raccoglieva il liquido. Ultimata questa operazione si pigiava la vinaccia, aggiungendovi del fresco fatto con altra uva fresca tenuta al sole per tre giorni, infine si sigillava il vino in vasi di creta, da aprirsi dopo una fermentazione di 20 o 30 giorni.
Un ipotetico menù, fatto con preparazioni cartaginesi, potrebbe essere:
ed ecco le ricette, precedute dalla ricetta base del cous cous:
Il cous cous é anche menzionato nella Bibbia della cucina toscana, l’Artusi, che lo presenta come un piatto giudeo.
Il metodo tradizionale del Nordafrica prevede l’uso di un recipiente per la cottura a vapore chiamato taseksut in berbero, kiska:s in arabo o cuscussiera. La base è una pentola di metallo allungata a forma bombata in cui si cuociono le verdure e la carne in umido. Sopra questa base viene collocato il recipiente dal fondo forato in cui il cuscus si cuoce a vapore assorbendo i sapori del brodo sottostante. Se l’incastro tra il il bordo della pentola inferiore e il recipiente superiore non è ermetico, spesso viene posto uno strofinaccio umido o una ciambella di pasta cruda ,per non far fuoriuscire il vapore dai lati.
Quando è cotto, come si deve, è morbido e leggero, non dovrebbe essere gommoso né formare grumi.
Il cuscus che si trova in vendita nei supermercati occidentali (quello che utilizzo io) è solitamente passato al vapore una prima volta e poi essiccato, e le istruzioni sulla confezione consigliano di aggiungervi un po’ di acqua bollente per renderlo pronto al consumo. Questo metodo è rapido e facile da preparare.
Il cous cous precotto richiede meno tempo per la preparazione rispetto alla pasta asciutta o al riso.
(dal libro “La mia cucina di Sicilia” dello chef Nino Graziano)
Versare 300 gr di couscous in un piatto ampio con i bordi rialzati [la “mafaradda”, che è un apposito contenitore di terracotta verniciata a pareti ricurve e fondo piatto, in cui vengono legati i granelli di semola n.d.r.] e lavorare rapidamente con un bicchiere d’acqua e un filo di olio. Passare i chicchi fra le mani in modo da mantenerli separati.
Versare del fumetto o de brodo di carne (a seconda della ricetta) nella pentola di base della couscoussiera, quanto basta quasi a riempirla; fasciare il bordo con un telo. Trasferire i chicchi di couscous nel contenitore superiore forato della couscoussiera, posarlo sulla pentola e mettere a fuoco medio.
Dopo circa 10 minuti, quando il vapore comincerà ad uscire, versare il couscous in un piatto. Stenderlo con un cucchiaio di legno, lavorandolo delicatamente con un movimento rotatorio per non ammassarlo. Appena si sarà intiepidito abbastanza da poterlo toccare con le mani, versare gradualmente l’altra metà dell’acqua fredda e un filo d’olio, passando il couscous fra le mani, per sgranarlo.
Rimetterlo sulla pentola. Ripetere questa operazione ogni 10-15 minuti per altre due volte, infine salare leggermente il cuscus. Dopo circa 45 minuti il couscous è pronto.
Trasferirlo nel piatto da portata, sgranarlo ancora con le mani, aggiungere una noce di burro fuso a fuoco basso e bagnarlo con qualche mestolo di fumetto, così si gonfierà ancora un po’. Coprirlo con un telo umido e conservarlo al caldo.
Tagliate a cubetti molto piccoli e friggete separatamente
Quindi aggiungere le verdure fritte al cous cous e far in modo che siano ben amalgamate.
Ingredienti per 8 porzioni
Prima di tutto mettete a mollo, in acqua tiepida, l’uva sultanina ed i pinoli e tenete da parte.
Poi, in una grande scodella o altro recipiente, mettete abbastanza olio d’oliva, il succo di limone, il curry, del sale e pepe, i petti di pollo.
Rigirate il tutto con le mani e mettere in frigorifero.
Mettete a mollo lo zafferano in una tazzina d’acqua tiepida.
Spellate le due cipolle.
Quindi tagliate le verdure a dadini (anche se tradizionalmente grandi, viene meglio se piccoli)
In una grande pentola bassa (se possibile di diametro +/- 40cm e altezza 10/12cm; se non l’avete, meglio dirigersi verso una padella di diametro più grande per compensare l’altezza che su di un pentolone di piccolo diametro e grande altezza), fate imbiondire l’aglio nell’olio d’oliva senza che esso prenda colore. Aggiungete le costolette d’agnello e girare.
Continuate a girare fino a quando esse non siano ben rosolate.
Aggiungete il litro di brodo di pollo, molto caldo, se no s’interrompe la cottura della carne ed il fondo bruno.
Abbassate il fuoco al minimo e lasciate cuocere per circa 45/50 minuti.
Durante questo tempo, amalgamate le carni macinate con il coriandolo e prezzemolo sminuzzati, la grattatina di zenzero, un po di cumino, sale e pepe.
Indi formate delle palline della grandezza di una noce ognuna e mettete da parte.
Al termine dei 45/50 minuti, si irrorerà la carne in brodo, sempre rimestolando, con: un cucchiaio circa di paprika dolce, un cucchiaio circa di cumino, un cucchiaio circa di Raz-el-Hanut, mezzo cucchiaio di 4 spezie, una tazzina d’acqua calda ove si aveva messo a mollo lo zafferano.
A questo punto aggiungete i tre tipi di rape, le carote e le cipolle.
Lasciate cuocere ancora per circa 20 minuti,sempre a fuoco basso, dopodichè aggiungete i peperoni e le zucchine.
Dopo circa 15 minuti, controllate lo stato delle verdure, normalmente quando i peperoni e zucchini sono pronti, anche le altre dovrebbero esserlo.
A questo punto aggiungete circa 1/4 di litro d’acqua e rimestolate.
Provate anche la carne, essa deve essere quasi spappolata e l’osso delle costolette dovrebbe venir via facilmente.
Se ciò non dovesse essere, continuate ancora un po’ la cottura, anche se le verdure saranno troppo cotte. Verso la fine, aggiungete i ceci lessati.
Una volta tolto dal fuoco, prendete un quarto di litro circa di brodo, portatelo a ebollizione e versateci dentro le polpettine.
10/15 minuti di cottura dovrebbero essere sufficienti.
Lasciando riposare un po’ il cous cous, prendete i petti di pollo lasciati a marinare, le salsicce e fate arrostire sul grill o graticola.
Alla fine tutto deve essere fatto a velocità sostenuta: Nel brodo dove avete cucinato le polpettine – al quale avrete aggiunto dell’acqua qualora ve ne fosse stato bisogno – e tenuto in ebollizione (senza le polpette!!) immergete – seguendo i consigli scritti sul pacchetto per quanto riguarda il parametro quantità/commensali – le bustine di cous cous.
Tenetele immerse il tempo indicato nelle istruzioni di cottura, normalmente 1,5 o 2 minuti.
In un grande piatto di portata, ove previamente avrete sminuzzato il burro e aggiunto l’uva sultanina ed i pinoli sgocciolati, rovesciate la semola e rimestolate fino a quando il burro si sarà sciolto.
Altrimenti prendete il cous cous preparato e prima messo da parte con un panno di sopra.
Si serve il tutto assieme, ma diviso come segue: Il cous cous (la semola) nel suo piatto di portata. Le verdure con i ceci e l’agnello in un secondo piatto.
Il brodo, se possibile con una piccola parte di ceci, in una zuppiera.
Le polpettine in un terzo piatto di portata ed il pollo e salsicce alla griglia ancora in un altro piatto.
Abitualmente si comincia a mangiare cosí: nel proprio piatto si adagia la semola.
Al centro della semola, con una posata, si fa un buco, nel quale si mettono le verdure, a piacere mettendo prima un poco di harissa (purea di peperoncino e aglio) diluita nel brodo
(1) Il ras el hanout è una miscela di trenta e più piante diverse, tra le quali ci sono anche numerose spezie.
Ne esistono diversi tipi, ogni negozio, ristorante o cuoca ha la sua miscela segreta, ma la tradizione vuole che ogni miscela contenga una spezia afrodisiaca.
È usato nella cucina tradizionale marocchina quotidianamente, per donare un sapore e un aroma unico a tutti i piatti che vengono cucinati e un vecchio detto marocchino recita: “Il ras-el-hanout è usato dalle donne che non sanno cucinare e diventano così delle ottime cuoche”.
Il ras el Hanout è diffuso in tutto il nord Africa e il nome significa “il top del negozio” intendendo che contiene il meglio tra le spezie. Fino agli anni novanta, poteva contenere anche la cantaride, un piccolo coleottero, che veniva venduto in polvere, come spezia in Marocco e si diceva avesse proprietà afrodisiache.
La più classica contiene tra l’altro: cannella, cardamomo, chiodi di garofano, coriandolo, cumino, curcuma, noce moscata, pepe nero e bianco, zenzero, boccioli di rosa, ma può contenere anche aglio, galanga, fiori di lavanda, macis, nigella, pepe di Giamaica, cassia, semi di finocchio, vari tipi di peperoncino, anice, anice stellato, alloro, radici di iris, grani del paradiso, zafferano, boccioli di rosa, lavanda, sale, e hashish (solo su ordinazione).
Lavare i pesci, diliscarli e privarli della testa. Mettere in una pentola i resti dei pesci, ricoprirli d’acqua e aggiungere il sedano, una cipolla tagliata a pezzi e la foglia di alloro. Cuocere e, a cottura ultimata, filtrare il brodo e metterlo da parte.
Tagliare il pesce a pezzi, soffriggere con l’olio l’altra cipolla, l’aglio ed il prezzemolo tritati. Unire la foglia di alloro, i pomodori pelati ed infine adagiarvi il pesce. Ricoprire con acqua, aggiustando di sale e pepe, aggiungere lo zafferano stemperato in poca acqua calda e le mandorle tritate. Quando la salsa con il pesce sarà cotta deve risultare sufficientemente addensata.
Portare ad ebollizione 250 ml del brodo preparato assieme a quattro cucchiai d’olio. Togliere dal fuoco e aggiungere i granelli di cuscus, mescolando delicatamente con una forchetta e lasciargli assorbire il brodo (i granelli gonfieranno). Aggiungere quindi il burro e cuocere ancora, a fuoco moderato, per tre, quattro minuti mescolando costantemente con la forchetta.
Bagnare, con parte della salsa con i pesci il cuscus e disporre sui piatti di portata, quindi condire con abbondante salsa e brodo di pesce. Servire dell’altro brodo caldo in una salsiera in modo che il commensale possa servirsene a piacimento.
E’ una ricetta del ristorante Le Lumie di Passito (Tp)
Condire 350 grammi di couscous con olio, 1 spicchio d’aglio rosso e 30 gr di mandorle sgusciate pestati nel mortaio, ,mezza cipolla tritata e prezzemolo tritato, sale e pepe. Mettete nella couscoussiera insieme al cous cous e dal primo vapore che esce, lasciare cuocere per un’ora circa
nel frattempo preparare la zuppa:
In una pentola fare soffriggete una cipolla uno spicchio di aglio, mezzo cucchiaino di pepe e l’olio d’oliva; aggiungete nel soffritto il fegato di due seppie tritato (melano), lasciate cuocere per 5 minuti circa a fuoco moderato; aggiungete 80 grammi estratto di pomodoro, il nero di due seppie, due seppie tritate a pezzi, acqua e portate ad ebollizione. Aggiungete 200 gr di pesce per zuppa (scorfano e boghe) poco alla volta (diliscato e pulito), aggiustate di sale e fate cuocere a fiamma bassissima per 40 minuti circa.
A questo punto filtrate la zuppa di pesce, mettere il couscous di pesce in un contenitore dai bordi alti (tipicamente si usa il “lemmo”) e irrorate fino a coprire lo stesso; coprire con una tovaglia e una coperta e lasciatelo riposare per 35 minuti circa.
Servite il couscous con la sua zuppa e una cucchiaiata di ricci di mare.
Mettete in una pentola acqua in quantità che possa quasi coprire un polpo medio di 1,200 kg, aggiungere un limone tagliato a metà, uno scalogno sbucciato, mezzo gambo di sedano e mezzo bicchiere di vino bianco, portare quindi a ebollizione.
Aggiungete quindi il polpo, una presa di sale grosso e bollire per circa 30 – 40 minuti con il coperchio (attenti alla schiuma!!!) , per il tempo di cottura ad ogni modo verificare con una forchetta.
Mentre il polpo bolle lavate e tritate le foglie di sedano, una volta terminata la cottura scolate il polpo (non gettate l’acqua potete usarla per bollirci delle patate, prenderanno il gusto di polpo), tagliarlo a pezzettini e metterlo in una bull abbastanza capiente, aggiungete quindi un cucchiaio di foglie di sedano, olio di oliva extra vergine (meglio uno delicato) e alcune gocce di colatura di alici.
Condite quindi il tutto e servite al centro dei piatti, magiare tiepido si apprezzeranno meglio profumi e aromi.
Pestate in un mortaio cannella, anice stellato, chiodi di garofano, semi di cardamomo verde. Mettete in una bustina del tè, o in una piccola retina da infusione o in una garza sterile che annoderete con filo da cucina fino.
Spremete due arance e mescolate il loro succo con 75 grammi di acqua e 6 cucchiai di Passito, aggiungete le spezie e scaldate il tutto a fiamma bassa in una pentola.
Quando sarà bollente spegnete la fiamma e lasciate le spezie in infusione coperte altri 5 minuti. Nel frattempo sciogliete una noce di burro in un pentolino, lo verso su 250 grammi di cous cous e iniziate a sgranarlo. Poi togliete le spezie e versatel’infuso ancora caldo sul cous cous; coprite con un panno e fate riposare.
Il cuos cous si cuocerà così, tiransosi via il liquido. Sbucciate due mele, tagliatele a tocchetti e fatele caramellare in padella con una noce di burro e un po di miele.
Fate rinvenire 60 grammi di uvetta in acqua (vi consiglio quella frizzante: così l’uvetta non ossida cambiando colore). Mettete 60 grammi di mandorle a tostare in una padella antiaderente e poi frantumatele. Quando il cous cous è pronto sgranate con una forchetta, aggiungete l’uvetta e parte delle mandorle e dell’arancia candita tagliata a scorzette sottili.
Mettete a bagno i 500 grammi di ceci, lasciateli ammollo una notte intera, quindi lavateli per bene sotto l’acqua corrente e metteteli a lessare (se disponete di una pentola a pressione usatela, ché vi risparmierà di tempo e di bolletta) fino a quando non sono ben cotti.
Scolate di ceci e riduceteli in crema: utilizzando il setaccio o meglio ancora il passaverdura: in tal modo eliminerete le bucce dei legumi, ottenendo un passato che vi permetterà di incorporare il miele senza problemi. Alla fine, la crema di ceci dovrà riposare.
Mettete 300 grammi di farina a fontana con all’interno un uovo, quattro cucchiai di olio, un bicchiere di vino e l’acqua tiepida e attaccate a impastare con gagliardìa.
Quando sentite che la pasta è liscia ed elastica potete smettere di manipolarla: prendete un coltello e dal panetto tagliate via man mano delle fette per stendere la sfoglia, provvedendo ad appiattirle prima di andare all’attacco, a seconda della perizia e dell’abitudine, o con il matterello o con l’apposita macchinetta (in questo secondo caso partite dal primo buco, passate poi al secondo e da ultimo impiegate il quinto).
Stesa la sfoglia (che dovrà essere spessa un millimetro) tagliatela in tanti quadrotti di circa dieci centimetri di lato, tirate lievemente la pasta per allargarla appena badando bene a non romperla, quindi poggiate al centro un cucchiaino di ripieno.
Il procedimento è tal quale quello per fare i ravioli: ripiegate il lato inferiore sul ripieno e saldate quindi entrambi i lati premendo delicatamente con le dita.
In ultimo rifilate con la rotella tagliapasta, e se volete essere sicuri che il ripieno non scappi via al momento della frittura pressate con la parte piatta della stessa intorno ai bordi. Voilà!
Dopo tanto faticare è arrivato il momento della frittura: e per non perdere il tempo e il ritmo, è santa cosa se qualcuno vi si dedica man mano che voi approntate i ravioli dolci di ceci. Detta frittura è meglio farla con olio di semi anziché di oliva, o i dolci vi verranno leggeri come i sassi.
Per far sì che la cottura venga a puntino impiegate una pentola e non la solita padella, in modo che il ravioli dolci di ceci al momento del tuffo si trovi completamente immerso: quando salirà su bello panciuto, rigirandosi stile cetaceo in vena di giocare e dorato come una giornata estiva, è pronto per essere preso con la schiumarola (attenzione allo schizzo in agguato) e deposto su un bel letto di carta assorbente.
Sbucciate le pere, mettetele, dritte una accanto all’altra, in un tegamino con un cucchiaio di miele sopra e ricoprirle di passito. Fate cuocere fino a quando le pere risultino morbide, togliete le pere e continuare a far restringere il passito fino alla consistenza di caramello.
Servire fredde col ristretto di passito versato sopra.
Menù della Sicilia preistorica (da non si sa al 5000 a.C.) La Maggior parte degli studiosi è concorde nel ritenere
Menù Neolitico dei Sicani (5000 a.C. – 2000 a.C.) La Sicilia è famosa, fin dalle nostre più remote reminiscenze scolastiche
Menù degli Elimi (1000 a.C – 500 a.C.) L’origine degli Elimi è stata ed è, tuttora, una questione di difficile